I dibattiti sull’attualità e sul senso odierno delle Giornate della memoria si spengono di colpo alla lettura dell’ultimo libro di Edith Bruck, “Il pane perduto” (La nave di Teseo, pp. 126, 16 euro).
A 60 anni dalla prima autobiografia, “Chi ti ama così”, la scrittrice ungherese, naturalizzata italiana alla fine di un percorso lungo e travagliato, torna ai suoi ricordi. Dal villaggio ungherese di Tiszabercel (Seicase) e dal ghetto della città di Sátoraljaújhely ad Auschwitz, dove arriva con la famiglia e da dove torna con la sola sorella Judit, e poi a Dachau, Kaufering, Bergen-Belsen e alla marcia della morte, con cui i tedeschi, nell’inverno del 1944-45, pressati dall’avvicinarsi delle truppe sovietiche e alleate, cercarono di far scomparire i sopravvissuti e le tracce dello sterminio.
Edith Bruck ne fa anche una questione di parole: “La parola patria non l’ho mai pronunciata: in nome della patria i popoli commettono ogni nefandezza. Io abolirei la parola ‘patria’, come tante altre parole: ‘mio’, ‘zitto’, ‘obbedisci’, ‘la legge è uguale per tutti’, ‘nazionalismo’, ‘razzismo’, ‘guerra’ e quasi anche la parola ‘amore’, privata della sua sostanza”. Ci vorrebbero parole nuove, anche per raccontare Auschwitz, scrive ancora la Bruck. Che è passata dalla lingua ungherese e dall’yiddish (“Quell’abbaiare era facile da decifrare per noi, assomigliava alla lingua yddish che anche i miei genitori parlavano”, così è descritto l’arrivo del primo soldato nazista e delle prime svastiche), alla babele dei campi di sterminio, la stessa ricordata anche dall’amico Primo Levi nei suoi libri, poi all’inglese della vita da sopravvissuta in giro per l’Europa e in Israele, per arrivare all’italiano. La lingua in cui ha deciso di scrivere i suoi libri. Una lingua che fa meno male di quella natìa: se dice pane nella sua lingua, racconta la Bruck nella bella intervista a “La lingua batte” su Rai Radio3, rivede immediatamente sua madre che impasta e prova dolore.
Quel pane è andato perduto, come ricorda il titolo, e con lui la mamma, che “ripeteva ‘il pane, il pane’ come se volesse salutare le pagnotte e difenderle, e persino controllarne la lievitazione” mentre la polizia ungherese li portava via da casa nella settimana della Pasqua ebraica del 1944. Quella mamma che allontanava le nuvole con lo sguardo, che ha rivolto più parole al suo Dio che ai sei figli e a un marito colpevole di essere povero, invecchiata di colpo a 48 anni nel momento della deportazione, quando “alla fine del dolce maggio, la sua luce carezzevole era tramutata in un bagno turco dalle pareti scure”.
La poetessa Bruck spunta in ogni dove nel libro, nella scelta delle parole e dei suoni. Aveva allora davvero ragione sua madre quando, da bambina, le diceva che recitava sempre poesie al posto delle preghiere. Ma ci sono anche queste: la Lettera a Dio finale assomiglia e ricorda tutti i dibattiti interiori tra l’uomo e la divinità. Le parole e le righe tendono verso l’alto sempre di più, le domande sono tante, la risposta certa almeno una: “pietà, sì, verso chiunque, odio mai, per cui sono salva, orfana, libera e per questo ti ringrazio, nella Bibbia Hashem, nella preghiera Adonai, nel quotidiano Dio”.
E adesso che la memoria perde qualche colpo, a 88 anni, la necessità di tornare sui ricordi si fa sentire prepotente. L’urgenza di raccontare le parole nuove incontrate nel lungo cammino compiuto: ghetto, quardli (il formaggio puzzolente del campo di sterminio), il numero 11152 che sostituisce il suo nome. E poi la parola ciao, a Napoli, dopo la liberazione, dopo il viaggio nella terra promessa, che però pretendeva ancora guerra, servizio militare e il ritorno in Europa con una compagnia di ballo.
Perché la memoria passa, la vista si allenta mentre i nazionalismi, l’antisemitismo e il razzismo aumentano, anche in Italia, affamata “di identità forte, urlata, e italianità pura”.
La descrizione della difficoltà di parlare dell’orrore al ritorno dai campi di sterminio ricorda quella di cui ha più volte parlato Liliana Segre: gli altri non volevano sentirne parlare, avevano sofferto anche loro, non erano pronti, tantomeno i familiari che non avevano vissuto quella esperienza. “Tra noi e chi non aveva vissuto le nostre esperienze s’era aperto un abisso, eravamo diverse, di un’altra specie […] Le nostre vere sorelle e fratelli sono quelli dei lager. Gli altri non ci capiscono, pensano che la nostra fame, le nostre sofferenze equivalgano alle loro”. Ma raccontare è inevitabile, è una promessa che la Bruck ha fatto agli ultimi a morire nel lager di Bergen Belsen, e a sé stessa, per dare senso all’essere sopravvissuta. Un obbligo morale e al tempo stesso una necessità quasi fisica. Scrivere è il pane, è tenere ancora in vita quel pane, il pane perduto.