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Talento, passione, denaro e sudore: una storia del jazz tutta da leggere

"La storia del jazz"(Hoepli,pagg 594, euro 29,90) di Luigi Onori, Riccardo Brazzale e Maurizio Franco, cerca così di ricostruire le vicende del jazz partendo dai luoghi, dai personaggi e dalle storie

Talento, passione, denaro e sudore: una storia del jazz tutta da leggere
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13 Dicembre 2020 - 16.43


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di Rock Reynolds

In principio era il jazz, o meglio, il jass, come veniva chiamata all’inizio del secolo scorso la musica sfrenata che si suonava nella città più alla moda del continente nuovo, la peccaminosa New Orleans dell’età aurea, quella delle bische e dei bordelli, quella in cui l’oscena triade bacco-tabacco-venere (con la complicità delle droghe) non veniva negata a chi aveva il portafogli fornito. E pure a chi faceva di necessità virtù.

E l’epopea del jazz è zeppa di racconti aventi per protagonisti soggetti che si arrangiavano, traffichini senza scrupoli che facevano da contorno a una scena musicale ricca più di talento e passione che di soddisfazioni economiche per chi la suonava. La strada di tutta la musica americana è lastricata di pietre saldate con il sudore e il sangue e, dunque, la chiave letteraria, a tratti poetica, è da sempre quella più ricca delle suggestioni che servono per raccontarla in modo degno. Se vi intriga saperne di più e, magari, prima ancora di accostarvi alla musica, leggere aneddoti ora divertenti e ora drammatici, c’è un bel libro che fa al caso vostro.

La storia del jazz (Hoepli, pagg 594, euro 29,90) di Luigi Onori, Riccardo Brazzale e Maurizio Franco, è un’opera non monumentale ma certamente ardita, proponendosi di ricostruire le vicende del jazz senza tracciarne un quadro eccessivamente accademico e partendo dai luoghi, dai personaggi e dalle storie. La storia del jazz, insomma, prende le mosse proprio dalla città-crogiuolo per eccellenza della cultura americana, New Orleans, la “Big Easy”, il cuore di quel sound nuovo, rivoluzionario e trasgressivo che tanti frequentatori dei locali di malaffare del posto amavano rendere parte integrante del loro primordiale pacchetto turistico. Si parla, naturalmente, degli inizi del Novecento e di Storyville, un quartiere il cui nome è tutto un programma. Louis Armstrong, nato a New Orleans nel 1901, emetteva i primi vagiti. Chissà che non si mescolassero con la tromba lancinante di Buddy Bolden, geniale e folle al punto da finire i suoi giorni in un istituto psichiatrico.

Lo sa bene David Fulmer, romanziere che lo spettro di Bolden lo ha agitato a più riprese nella fortunata serie di noir storici ambientati nella New Orleans dei primi del Novecento e aventi per protagonista l’investigatore creolo Valentin St. Cyr, a partire dal primo capitolo della saga, L’assassino dei bordelli (Sonzogno). Ecco perché, a suo dire, il jazz è fondamentale per la storia americana. “Perché, come molte altre cose americane, è iniziato come un ibrido assemblato da vari frammenti di cose diverse: ragtime, gospel scalmanato, grezzo blues primordiale, musica da banda e qualunque altra cosa fosse nell’aria nell’ultimo decennio dell’Ottocento. Perché è nato dove è nato. Dove, se non a New Orleans, sarebbe potuto apparire il jass? Il terreno culturale era fecondo come il limo del delta del Mississippi. Perché, come tutte le grandi storie, aveva un eroe complesso, Buddy Bolden, alimentato dalla follia nella tragedia fatale della musica. Per finire, perché il jazz infrangeva le norme razziali. Ben prima che le forze armate e il baseball vedessero l’integrazione e molto prima del Civil Rights Act, orchestre composte da neri, creoli e bianchi – molti dei quali italiani – suonavano insieme su un palco. Perché, per me, il jazz è l’America o, quanto meno, il suo meglio.”

In quest’opera c’è davvero la storia tormentata di questo grande paese e del suo popolo o, per la precisione, del popolo che discende dagli schiavi e della sua relazione ancor oggi difficilissima con il resto della nazione: La storia del jazz non lesina sui dettagli che servono a ricostruire, tassello su tassello, il quadro sociopolitico dagli esordi fino ai giorni nostri, con il plus ulteriore di non farlo in maniera eccessivamente formale o eccessivamente didascalica. Il libro è ricchissimo di capitoli e box di approfondimento su eventi storici, musicisti iconici, ramificazioni internazionali di una musica nata essenzialmente come valvola di sfogo degli afroamericani sulla pista da ballo e proiettata sui palcoscenici dei teatri più prestigiosi del mondo: insomma, per ironia della sorte, dalle bettole all’accademia. Ci sono pure numerosi riferimenti al jazz in Italia e in Europa più in generale, ma persino al suo approdo in Russia.

E, soprattutto, ci sono i ritratti dei grandi strumentisti e band leader: Duke Ellington, Count Basie, Billie Holiday, Charlie Parker, Monk, Bill Evans, Miles Davis, John Coltrane, solo per citarne alcuni. E proprio di Davis e Coltrane ha abbondantemente scritto il giornalista americano Ashley Kahn, uno dei massimi esperti internazionali, citato più volte all’interno di questo libro. I suoi Il rumore dell’anima, Kind of Blue e A Love Supreme (tutti pubblicati da Il Saggiatore) sono letture consigliatissime. La sua passione è palpabile. “Adoro il jazz. Adoro la sua eleganza e la sua stranezza e le sue fissazioni e le sue peculiarità. Adoro il fatto che il jazz possa essere cerebrale e terreno allo stesso tempo. Adoro che vanti una storia orgogliosa e una sua unicità e che, tuttavia, senta il bisogno di paragonarsi alla musica classica e di chiamarsi cose sciocche come ‘l’unica vera forma d’arte americana’ quando, in realtà, il jazz è più internazionale, privo di confini e meno nazionalista di quasi ogni altra espressione musicale contemporanea. Sul piano musicale, adoro il fatto che il jazz sia uno degli stili più permeabili e curiosi e che integri incessantemente idee ed influenze esterne, malgrado la sua tendenza a vantare un’antiquata idea di autenticità. Per parafrasare un giornalista musicale amico mio: ‘L’amore è accettazione di ciò che qualcosa è, non di ciò che qualcosa crede di essere’. È questa per me la lezione principale che il jazz insegna ed è per questo che adoro il jazz”.

E dire che l’annosa questione dell’etnicità del jazz, della sua rigorosa origine africana – una contraddizione in termini, dato che il jazz è quello che è perché dall’Africa viene ma in America si è plasmato – è tuttora causa di fratture insanabili o, comunque, di qualche mal di pancia, come emerge tra le pagine del volume.

Rabbia, orgoglio e voglia di rivalsa, onda nemmeno troppo lunga dello schiavismo, non mancano, dunque. Talvolta, al punto da scatenare comportamenti violenti. Non sorprende che uno dei maestri riconosciuti del thriller internazionale trovi intrigante il jazz, forse proprio per le sue atmosfere fosche. Jeffery Deaver non è certo un jazzista, ma non tutti sanno che ha un passato da folksinger nel circuito dei locali americani e che è un grande appassionato di musica. L’autore della serie dell’investigatore tetraplegico Lincoln Rhyme, pubblicata in Italia da Rizzoli e apertasi con il romanzo iconico Il collezionista di ossa, ha le idee chiare. “Ciò che mi piace maggiormente del jazz è la libertà di improvvisare di cui gli artisti dispongono. Lo stesso brano non è mai uguale e noi ascoltatori godiamo di un caleidoscopio di suoni ed emozioni in costante trasformazione.”

La storia del jazz di Onori, Brazzale e Franco è uno strumento utilissimo per aiutare il lettore a districarsi tra correnti e stili, per capire meglio il background storico e la portata epocale di questa musica e, soprattutto, per coglierne anche gli aspetti più astrusi. Non cosa da poco, considerato ciò che mi disse anni fa un grande romanziere texano all’indomani del concerto di una band di superstar del jazz di cui era ospite d’onore. “Sembravano ubriachi”.

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