Lo sanno in pochi, lo sappiamo in pochi: tra gli anni ’40 e gli anni ’80 del secolo scorso la Svizzera affidava spesso bambini e ragazzi di famiglie povere, precarie, o reputati difficili o ribelli, figli illegittimi, a famiglie di contadini o a istituti, d’ufficio contro la volontà dei diretti interessati. Erano sistemazioni forzate. Di questo narra “Per una fetta di mela secca”, romanzo della scrittrice spagnola Begoña Feijoo Fariña (Gabriele Capelli Editore, pp. 144, euro 16) di cui pubblichiamo un brano per gentile concessione dell’editore.
Di quella pratica di Stato scrive la casa editrice che ha sede a Mendrisio: “Molte delle vittime di tali decisioni di collocamento coercitivo sono state mandate a servizio, sfruttate in aziende agricole, internate in istituti psichiatrici o penitenziari, maltrattate, sottoposte ad adozioni forzate o hanno subito (spesso a loro insaputa) sterilizzazioni. Per una fetta di mela secca racconta la storia di una di questi bambini: Lidia Scettrini. Un nome e una storia di fantasia utilizzati per raccontare quella che è stata la storia di molti”.
Il romanzo ha come protagonista Lidia: vive con la madre, divorziata, e per aver rubato la merenda a un ragazzo, e per la povertà della famiglia, viene spedita in un istituto dove viene maltrattata dalle suore e poi affidata a una famiglia di contadini. Diventata maggiorenne, dovendo compilare dei documenti di risarcimento istituito a questi ragazzi dalla Confederazione svizzera e dai Cantoni, si ritrova a ripensare a tutta la sua storia. L’autrice, romanziera e cofondatrice della compagnia teatrale inauDita, vive in Svizzera da quando aveva 12 anni.
Begoña Feijoo Fariña: da “Per una fetta di mela secca”
Qualcuno porta un piccolo cesto di patate, qualcuno salsicce, Frau Hasler porta il marito e il marito porta tre bottiglie di vino, nero come la notte che cala lenta e spietata sulla casa e dentro le mura. Resta solo la candela accesa sul tavolo, le persone intorno e io che cucino e servo, riscaldata dalla stufa accesa.
Qualcuno chiede e adesso, che te ne fai di quella? E lo so che parlano di me, perché i loro occhi si girano verso l’angolo buio dentro cui aspetto il permesso di andare a dormire, quasi certa che stanotte nessuno legherà i miei polsi alle assi della stalla e che il fieno e le pulci non tortureranno la mia pelle. Robert non risponde e la domanda resta in me, riempie la testa e diventa l’unico pensiero possibile. Ora cosa ne sarà di me, senza Anne?
E così, mentre da ogni lato del tavolo crescono i discorsi su quanto Anne fosse stata una buona moglie, quanto forte prima che la malattia la costringesse a letto, quanto generoso Robert che l’aveva sempre tenuta in casa, qualcuno dice e ti sei anche preso questa poveretta senza madre.
Io ce l’avevo una mamma. Una mamma gentile. Me l’hanno portata via. Che ne sapete voi? Io ce l’avevo. Ce l’ho una mamma. Mi hanno mandata via per una fetta di mela secca. Una fetta di mela secca e un fazzoletto! Non sono una poveretta senza madre e non sono più una ragazzina. Sono certa di averlo solo pensato invece lo sto urlando. Lo vedo dalle loro facce prima ancora di sentire la mia voce. Urlo e sono in piedi e mi sento grande come non mi sono mai sentita. Vedo l’immagine di me guardata a lungo nello specchio la mattina e urlo e vorrei ucciderli tutti. La voglia di uccidere si somma alla colpa per la voglia di uccidere e si spegne nel momento in cui la mano aperta di Robert si schianta violenta contro la guancia. Il mio corpo esile cade a terra. Frau Hasler si alza di scatto. Robert! urla. Ma già suo marito le prende il braccio e la costringe a sedersi. Negli occhi di entrambi vedo ciò che accadrà al rientro a casa. Lei chiederà scusa per aver osato e lui tacerà fino all’indomani, quando accetterà le sue scuse ricordandole che non deve farlo mai più. Perché un uomo è padrone in casa sua e una mezza vagabonda venuta dal nulla non deve permettersi di trattare così chi le dà da mangiare. Questo dirà. Lui non lo sa che io non sono una buona a nulla e non sa che non è dal nulla che sono venuta. Sono venuta da Cavaione, Valposchiavo, Grigioni, dove mia madre mi ha cresciuta e amata, finché non ho rubato una fetta di mela secca.
Robert sta in piedi accanto al mio corpo a terra, il rumore del suo respiro copre i respiri altrui. Vattene dice. Vattene da questa casa. Mi alzo lentamente senza mai smettere di guardarlo negli occhi. Vorrei abbassare lo sguardo, come ho imparato presto a fare e faccio da un tempo tanto lungo da non ricordare quanto lungo sia davvero, ma non posso. I miei occhi sono chiodi dentro i suoi occhi e sono bocche aperte che urlano il dolore e il disprezzo. Raccontano il suo corpo sudato sulla pelle nuda, descrivono le mani fra le cosce e i morsi sul collo, sputano sul suo viso e alla fine sono i suoi occhi ad abbassarsi. Si gira e si risiede a tavola. Vattene. Sono parole pronunciate piano, questa volta, parole stanche. Poi prende dal cassetto una scatola di latta, la apre e mette sul tavolo un pugno di monete. La vedova Seller mi fa segno con la testa di raccoglierle e io lo faccio. Guardo ancora una volta Robert prima di voltare a tutti le spalle e mi accorgo di avere davanti un vecchio. È come se in tutti quegli anni non avessi visto il tempo passare né su di lui né su di me. Da bambina a donna, da uomo padrone a vecchio stanco. O forse è invecchiato tutto d’un colpo oggi, trovandosi davanti un’Anne incapace di riaprire gli occhi, partita per un altrove e mai più sua.
Nessuno parla, i miei piedi battono lenti e pesanti sul pavimento del corridoio. Per l’ultima volta guardo dentro la stanza di Anne. La luce della luna le illumina il viso. È bella, ogni traccia di dolore è scomparsa. Sono felice di essere stata io a vestirla per domani. Le mie sono le ultime mani che abbiano toccato la sua pelle, il mio tocco l’accompagnerà al cimitero e così potrò essere con lei. La saluto con il solo movimento delle labbra, senza fiato, ciao Anne e scendo le scale.