Luca Crovi: «Il racconto noir non può essere imbavagliato da regimi e fascismi» | Culture
Top

Luca Crovi: «Il racconto noir non può essere imbavagliato da regimi e fascismi»

Con “Storia del giallo italiano” il narratore ricostruisce 170 anni di storie e scrittori: «I romanzi italiani sono sempre stati sociali, raccontano le ingiustizie»

Luca Crovi: «Il racconto noir non può essere imbavagliato da regimi e fascismi»
Preroll

redazione Modifica articolo

25 Settembre 2020 - 16.55


ATF

di Rock Reynolds

Tassonomico? Forse. Puntiglioso? Probabilmente. Entusiasta? Certamente. Luca Crovi è questo e molto altro ancora. Colonna portante della Bonelli Editore ormai da mezza vita, figlio d’arte – suo padre Raffaele è stato editore, consulente editoriale e autore di rango – e frequentatore degli ambienti letterari italiani praticamente da quando era in fasce, Luca Crovi non si è mai sentito del tutto a suo agio nell’aria rarefatta della torre d’avorio delle case editrice e preferisce da sempre “sporcarsi le mani” con la polvere dei romanzi, non disdegnando qualche incursione nell’amato fumetto e prestando, così, il fianco agli strali di chi, con un po’ di boria salottiera, lo ha sempre guardato con un’aria di superiorità. Lui non se n’è mai curato, tirando ostinatamente dritto e guidando l’avanguardia del rinascimento del noir italiano, di fatto ereditando il testimone dal padre Raffaele, che non ha mai considerato figlia di un dio minore nessuna forma di narrativa popolare.
Storia del Giallo Italiano (Marsilio, pagg 507, euro 19) esce a poco meno di 20 anni di distanza dal suo diretto progenitore, Tutti i colori del giallo, suggellando un patto culturale inossidabile con il suo editore, Cesare De Michelis, da poco scomparso. Ed è proprio a lui, al padre Raffaele e alla compianta Tecla Dozio, “la Signora del Giallo”, che il libro è dedicato.

Luca Crovi, che nel frattempo ha iniziato a farsi valere come narratore – con un paio di romanzi usciti per Rizzoli e una serie di racconti aventi sempre per protagonista il commissario Carlo De Vincenzi, nato dalla penna di Augusto De Angelis, e usciti sulle pagine de Il Giornale, quasi a rinverdire i fasti del romanzo d’appendice – ha intervistato centinaia di autori di genere italiani. Metterlo sul lato opposto della barricata ha un che di surreale.
“Storia del giallo italiano” nasce da “Tutti i colori del giallo”. Cos’è successo nel frattempo nell’Italia del noir?
Negli ultimi vent’anni, la narrativa gialla in Italia ha aumentato la sua produzione e si è diffusa capillarmente nel paese facendosi portavoce di un ritratto sociale che ha mostrato ai lettori praticamente tutte le città e le regioni.
Lei stesso è diventato narratore, non più semplice cronista e storico. Come ci si sente a saltare il fossato?
Ho scritto due romanzi ambientati a Milano per Rizzoli che raccontano la mia città fra il 1928 e il 1931 e le sue trasformazioni. Credo che il passaggio alla narrativa sia stata un’evoluzione della mia passione per il giallo e l’aver utilizzato un personaggio come il commissario De Vincenzi di De Angelis è stato una scelta volontaria per dare ancora qualche avventura a un eroe il cui ciclo si era interrotto per la morte prematura del suo creatore. Avere scritto due romanzi ha sicuramente influenzato la stesura di Storia del Giallo Italiano che ho voluto che si leggesse come un romanzo o come una serie di racconti sui protagonisti di questo genere di letteratura.

Non cita i suoi romanzi, ma ogni tanto parla di suo padre. Che lezione le ha lasciato e cos’era per lui il giallo, visto che in qualche modo è stato un precursore, uno dei primi editori in Italia a dare pare dignità alla narrativa di genere rispetto alla cosiddetta “alta letteratura”?
Mio padre è stato uno dei protagonisti della letteratura italiana del Novecento, sia come poeta che come scrittore, come editor e poi editore. Ha sempre amato i gialli e li ha sempre difesi. Insieme ad Alberto Tedeschi, Oreste Del Buono, Tecla Dozio e Luigi Bernardi, ha creduto nell’originalità del giallo italiano. Parlare dell’esperienza di mio padre vuol dire raccontare una parte del percorso di questa narrativa di genere nel nostro paese. Vuol dire raccontare come sono nati autori come Loriano Macchiavelli, Luciano Anselmi, Andrea Vitali, Tiziano Sclavi, da lui scoperti. Mio padre amava scommettere sul talento degli altri.
Un tempo, il giallo italiano soffriva di un forte complesso di inferiorità nei confronti dei grandi autori stranieri di genere, soprattutto inglesi e americani. Oggi quel gap si è colmato?
In realtà il gap c’è stato solo in alcuni periodi di crisi narrativa. Emilio De Marchi, Francesco Mastriani, Carolina Invernizio erano popolari in Italia ma anche in Germania, Spagna, Francia e persino negli Stati Uniti. Sciascia, Buzzati, Fruttero e Lucentini sono da sempre tradotti con successo all’estero. Umberto Eco è il primo thrillerista italiano citato da americani e inglesi. Giorgio Scerbanenco ha avuto i primi grandi riconoscimento letterari in Francia. E, oltralpe, autori come Donato Carrisi, Valerio Varesi e Luca Di Fulvio oggi sono popolarissimi. All’estero si legge più che in Italia. Si pensi poi al successo internazionale avuto da Camilleri e dal suo modo di raccontare in maniera inedita la Sicilia.
Da “Tutti i colori del giallo” è nata l’omonima trasmissione radiofonica per la Rai. Nove stagioni. Cosa le manca maggiormente di quei giorni e, se dovesse rifarla oggi, cosa aggiungerebbe?
Ogni volta che ancora oggi faccio un’intervista, penso agli ascoltatori come se fossi in radio. È stato un periodo che mi ha permesso di incontrare centinaia di scrittori, fumettisti e musicisti. Se potessi riprendere quel percorso, terrei fissa la possibilità di fare jammare in studio attori, scrittori e musicisti in ogni puntata.

Quando si scrive la storia di un genere letterario, inevitabilmente si finisce per lasciar fuori qualcosa o qualcuno. Senza fare nomi, ovviamente, ma le è capitato anche stavolta di suscitare qualche mugugno?
Raccontare 170 anni di storia della letteratura in sole 500 pagine è una sfida non da poco e credo che il mio saggio possa stimolare altri a proseguire nella ricerca. Dovevo essere chiaro ma non un tuttologo. Dovevo poter dare anima ai romanzi e agli autori che ho citato, anche a quelli che hanno una sola riga. E credo che il mio saggio potrò aggiornarlo solo fra vent’anni. La mia è una storia letteraria fatta di suggerimenti di lettura che credo possano appassionare i lettori.
Com’è cambiato l’atteggiamento del giallo italiano rispetto alla scena politica del paese?
I gialli e i noir italiani hanno sempre avuto la caratteristica di essere romanzi sociali e quindi di raccontare le ingiustizie presenti nel paese. Lo faceva De Marchi, che raccontava la corruzione nel mondo della chiesa e l’usura, ma lo faceva anche Mastriani, parlando dei bassifondi napoletani. Attilio Veraldi con Il vomerese ha inquadrato il mondo del terrorismo. Massimo Carlotto con molti dei suoi romanzi ha raccontato il mondo nel nordest, dove la criminalità ha spesso usato la politica. Una collana come Verdenero di Edizioni Ambiente e Legambiente ha permesso ai noiristi di investigare sull’inquinamento e su delitti ecoambientali spesso avallati dalle amministrazioni locali. Leonardo Sciascia ha sempre evidenziato il fatto che l’atteggiamento mafioso ha bisogno del potere e della politica per espandersi. Autori come Alessandro Perissinotto e Tullio Avoledo hanno sottolineato in alcuni loro noir come gli estremismi politici producano una falsa morale. Il noir è un genere che non può essere imbavagliato e, per questo, è stato messo al bando nei paesi di regime. Pensate a quanto successo durante il fascismo e, più tardi, in Grecia sotto i colonnelli o in Spagna sotto Francisco Franco. Le storie noir sono state prima censurate e poi bandite perché raccontavano in presa diretta l’ingiustizia di certi sistemi.

Native

Articoli correlati