di Antonio Salvati
Mentre l’aggettivo “virale” – frequentemente utilizzato in relazione alla rapidissima circolazione di contenuti sulle piattaforme social – rivela la sua inquietudine, in tempo di emergenza coronavirus, e il cosiddetto “virtuale” ci mette di fronte a tutta la sua innegabile realtà, è uscito l’ultimo e snello volume del filosofo e sociologo Slavoj Žižek Virus (2020, Ponte alle Grazie, pp. 48, € 3,99). Un instant book che si inserisce a pieno titolo nel filone dei Post Coronial Studies.
Non potremo permetterci di trattare l’epidemia come uno sfortunato incidente, sbarazzandoci delle conseguenze e riprendendo l’andamento scorrevole della vita di sempre. È assai probabile che demolirà i fondamenti della nostra vita, «determinando non solo immenso dolore ma anche uno sconquasso economico probabilmente peggiore della Grande Recessione». Hegel – ci ricorda Žižek – scrisse che dalla storia impariamo solo che non impariamo niente dalla storia. Žižek dubita che l’epidemia ci renderà più saggi e si chiede che cosa proprio non va nel nostro sistema, tanto da farci cogliere impreparati dalla catastrofe, malgrado gli scienziati ci avvertissero da anni? Dare una risposta a questa domanda – avverte – «richiederà molto di più che nuove forme di assistenza sanitaria globale».
I mezzi d’informazione hanno ripetuto spasmodicamente «Niente panico!». Ma poi siamo sommersi da una valanga di dati che inevitabilmente scatena il panico. Lo strano contraltare di questo genere di panico – osserva Žižek – è la totale assenza di panico quando sarebbe pienamente giustificato. Negli ultimi due anni, dopo le epidemie di Sars e di Ebola, ci hanno ripetuto molte volte che sarebbe arrivata una nuova epidemia, molto più grave. Era solo questione di tempo, il punto non era se, ma quando sarebbe successo. La crisi climatica uccide molte più persone del Covid-19 in tutto il mondo, ma per questo non si scatena certo il panico.
Significativamente il 5 marzo scorso il direttore generale dell’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus, ha dichiarato che sebbene le autorità sanitarie di tutto il mondo siano in grado di combattere con successo la diffusione del virus, l’organizzazione è preoccupata perché in alcuni paesi il livello d’impegno politico non corrisponde al livello della minaccia. «Questa non è un’esercitazione. Questo non è il momento di arrendersi. Questo non è il momento delle scuse. È il momento di fare ogni sforzo possibile. I paesi hanno fatto piani per scenari come questo da decenni. Ora bisogna agire sulla base di quei piani» ha detto Tedros. «L’epidemia può essere respinta, ma solo con un approccio ad ampio raggio, coordinato e collettivo che impegni l’intero meccanismo di governo».
In tal senso, oggi – è la tesi di fondo del volume – una forma di globalizzazione senza regole, del libero mercato, con la sua propensione per crisi e pandemie, sta morendo. Sta nascendo una nuova consapevolezza che riconosce l’interdipendenza e il primato dell’azione collettiva basata sull’evidenza dei fatti. Anche se ancora predomina la posizione «ogni paese per sé», e ci sono divieti nazionali alle esportazioni di prodotti cruciali come le forniture mediche, con paesi che si affidano alle proprie analisi della crisi tra penurie e metodi improvvisati di contenimento. L’epidemia di Covid-19 non dimostra solo i limiti della globalizzazione dei mercati, ma anche quelli ancora più letali del populismo nazionalista che insiste sulla piena sovranità dello Stato: è la fine – sottolinea energicamente Žižek – di «Prima l’America (o chiunque altro)!», perché gli Stati Uniti si possono salvare solo con il coordinamento e la collaborazione globale. «Non sono un utopista, non invoco una solidarietà idealizzata tra esseri umani – al contrario, la crisi attuale dimostra chiaramente che la solidarietà e la collaborazione globale sono nell’interesse di tutti e di ciascuno di noi, e sono l’unica cosa razionale ed egoista da fare».
Il virtuale è reale, ma non è solo questa la lezione che stiamo imparando da questo tempo sospeso. Per dirla con Kant, mai come oggi è evidente che «la solidarietà del genere umano non è solo un segno bello e nobile, ma una necessità pressante, una questione di vita o di morte». La tua vita dipende dalla mia, e viceversa. Siamo tutti davvero interconnessi, nessun uomo è un’isola, l’individualismo è una teoria ormai “falsificata” dalla “prova” del contagio. Oggi dobbiamo isolarci, ma è un movimento che ci viene difficile, e lo facciamo prima di tutto per il bene di altri, in particolare dei più fragili. Evitiamo il contatto per proteggersi e proteggere. Perché ciò che facciamo ha sempre conseguenze, oggi lo capiamo drammaticamente. Nessuna nostra azione è a senso unico.
Quanto detto non mostra forse con chiarezza il bisogno urgente di una riorganizzazione dell’economia globale che non sia più in balia dei meccanismi del mercato? Žižek pensa a una qualche sorta di organizzazione globale che possa controllare e regolare l’economia, come pure limitare la sovranità degli Stati-nazione quando fosse necessario.
Recentemente Mario Giro, docente di relazioni internazionali, si è interrogato sull’impennata globale dell’ideologia nazionalista e sovranista che ha mutato lo spirito del tempo. Globalizzazione e nazionalismo si sono sviluppati parallelamente, imparando anche a convivere. Tuttavia, proprio nel momento in cui ce ne sarebbe più bisogno, l’influenza delle organizzazioni e dei patti multilaterali è al minimo storico, ha sottolineato Giro. Per sopravvivere le alleanze multilaterali «devono essere più fortemente sentite, riuscendo a creare un pathos a livello nazionale. Sia l’Ue che, in misura diversa, la Nato e l’Onu, devono poter divenire immediatamente comprensibili al grande pubblico, pena la loro definitiva irrilevanza. Gli Stati non hanno interesse a farle scomparire ma a ridurne decisamente il peso e l’autonomia (in Europa ciò è rappresentato dallo squilibrio tra Consiglio e Commissione). Soltanto una forte connessione con le società potrà salvarle. In una democrazia efficiente basterebbe il risvolto parlamentare ma oggi ciò non è più sufficiente. È necessaria un’idea di leadership non egoista e un atteggiamento pronto ad assumere responsabilità più vaste, mettendo uno stop alla scorciatoia che consiste nello scaricare sempre tutte le colpe sull’esterno, sui vicini ecc. (…) Sarà necessario un nuovo linguaggio politico per spiegare alla pubblica opinione scelte e azioni in base a un interesse nazionale «aperto», e non il contrario. In altre parole: i leader dovranno dimostrare più responsabilità».