di Manuela Ballo
Spiraglio di luce in un cielo ombroso: è l’effetto che procura il libro di Lorena Spampinato, “Il silenzio dell’acciuga” (Nutrimenti, pp. 240, euro 18,00). In copertina solo una bambina con lo sguardo assente e dritto verso chi la osserva, e pochi oggetti: un frigorifero, una lavatrice e un grande televisore di quelli che non esistono più poiché sostituiti da schermi piatti.
Lei, però, rimarrebbe sempre la stessa, costretta a lottare con le unghie e con i denti contro una società omologante e patriarcale, dalla quale le donne si sono sempre ribellate. E continuano a farlo.
Quella piccola donna, perciò, potrei essere io; potreste essere voi, non è soltanto Tresa. La storia della protagonista si svolge nella Sicilia degli anni Sessanta. A narrarla è lei stessa in prima persona; lei che, dall’alto della sua innocenza, affronterà un lungo e doloroso percorso di crescita, fino ad arrivare alla piena consapevolezza di sé, del suo corpo e del suo esser donna. A sostenerla, in questa fase cruciale della vita, è la zia Rosa, una donna amorevole e premurosa, che ha dovuto adattarsi e calarsi nel ruolo di nutrice, per lei inedito e sconosciuto.
La situazione familiare in cui Tresa vive è complesso e determinerà molte delle sue scelte. La morte della madre, celata dietro una coltre di silenzio e mistero, e il conseguente abbandono del padre, cambia tutto. Diverso è il sentimento con cui Tresa affronta le due situazioni: da una parte, la perdita prematura vissuta con tanto dolore e amarezza; dall’altra l’abbandono come liberazione da un senso di timore: “Pensai spesso a come sarebbe stato crescere con una madre” e “che forma avrebbero avuto i miei pensieri se accanto ai modi bruschi di mio padre ci fosse stata una figura più morbida e simile a me”, pensa Tresa.
La rigidità, e la presenza ingombrante, del padre hanno influenzato i comportamenti della piccola ragazza siciliana, dai modi d’essere al vestiario: Tresa era costretta a indossare vestiti da uomo, portare i capelli corti e non poteva né agghindarsi né farsi allungare i capelli. Leggerezza e frivolezza erano bandite. Doveva, in sostanza, rinnegare la sua femminilità, avvicinandosi sempre più alle sembianze di Gero, il fratello. “Nessuno avrebbe detto che ero una femmina” arriva a pensare. Tresa non è Gero, e per quanto resi simili, con le sue apparenti sembianze da maschio (i compagni di classe la le affibbiarono il nomignolo di “masculina”) scoprirà, grazie alla zia, che esser femmina è ben altra cosa: “Non aveva niente a che fare coi capelli, vestiti e cianfrusaglie. Non c’entravano i modi di fare e di atteggiarsi. Solo una cosa c’entrava: la libertà”. Passo dopo passo, catastrofe dopo catastrofe si compirà la sua emancipazione.
In ogni giovane donna c’è una piccola Tresa, che lotta, scalcia e urla rivendicando il diritto ad essere diversa, cioè sé stessa, libera da condizionamenti e imposizioni. Ci siamo noi e c’è Tresa. Cosa c’è di diverso da quegli anni Sessanta e questi in cui viviamo? Cos’è realmente cambiato tra quella Sicilia e quella d’oggi? La prima era immobile, ancorata ai suoi cliché e piena di tabù. Anche il Sessantotto fu avvertito come una breve scia di fumo destinata a dissolversi nell’aria. L’isola d’oggi, invece, è una Sicilia completamente diversa e nella quale la situazione è ben migliorata, avendo lentamente compiuto passi in avanti. Antichi vizi sono però rimasti. E la Sicilia, la mia Sicilia, oggi grida al cambiamento, cercando di liberarsi definitivamente dalle arcaiche abitudini, grazie alle lunghe battaglie condotte da quelle donne, che come Tresa, hanno sopportato e lottato.
Noi donne siamo più libere, autonome e indipendenti: questo lo dimostra l’autrice con una storia di profondi silenzi e verità nascoste, sopraffazione e negazione dell’essere, ma anche di crescita ed emancipazione. È una storia da leggere e raccontare quella che racconta Lorena Spampinato: con delicatezza e forza parla di sé e delle donne italiane. Lo fa con lo stile che è proprio di un pittore che è intento nella realizzazione del suo migliore capolavoro.