di Marco Buttafuoco
Si dice, troppo spesso che lo sport è lo specchio di una società. È una frase banale che nasce da una sorta di degnazione degli intellettuali, soprattutto italiani, per l’agonismo in generale. Si vorrebbe significare, con questa banalità, che lo sport è un elemento secondario della storia di un popolo. Un riflesso, un’eco. Ne possiamo parlare o scrivere ma con snobistico distacco, o ricorrendo a una sorta di manierismo sentimentalista. Lo sport è invece parte essenziale della storia di una nazione, se non altro per un dato semplicissimo: è praticato e seguito da milioni e milioni di persone. Non è un caso che in molte università del mondo, soprattutto quello anglosassone, operino cattedre di Storia dello Sport, a fronte delle pochissime esistenti in Italia. Lo sport subisce gli influssi della vita sociale e, a sua volta, può influenzarla e orientarla. Penso a quello che avvenne nel famoso Tour del 1948 (ma si potrebbero citare decine e decine di eventi in ogni paese), in cui un’epica vittoria di Gino Bartali stemperò gli umori infiammati, dopo l’attentato a Togliatti e placò la tensione per insurrezionale che gravava sul paese.
Per fortuna ci sono scrittori italiani che mettono lo sport in primo piano. Con l’episodio di Bartali comincia, infatti, il bel libro di libro di Giancarlo Governi, Il volo dell’Airone. Il romanzo della vita di Fausto Coppi (Fandango Libri, 2019, pagg. 236, 16 €). Un lavoro che dimostra come si possa raccontare, con profondità, la storia di un paese dall’angolo visuale di un campione (1919-1960) e di uno sport. Un esempio di buona storia e buona letteratura.
Lei ha pubblicato diverse biografie, molte sui protagonisti del mondo dello spettacolo italiano del dopoguerra come Alberto Sordi, Anna Magnani. Totò. Nella sua lunga carriera televisiva (è stato fondatore del secondo canale televisivo) si è già tanto occupato di sport e di ciclismo. Penso alle sue fiction su Bartali e sullo stesso Coppi. Perché questa scelta di un nuovo lavoro, un romanzo sul campionissimo, un personaggio d’altronde già molto narrato e indagato?
Perché Fausto è un pezzo importante della nostra storia. Perché visse sulla sua pelle, nelle sue ossa, non solo la fatica e il dolore che fanno parte della vita di tutti ma anche perché fu uno dei simboli di una società che cambiava nel profondo. Meglio ancora, ne fu un protagonista. Nasce in Piemonte, nel 1919, da famiglia contadina, in una società intrisa di autoritarismo, in cui il padre detta le regole, in cui si dà del voi ai genitori. Fausto si ribella alla tradizione. Dice al padre, severo e come molti piemontesi di poche parole, che lui non è nato per zappare. Vuole tentare un’altra strada. E il padre non si oppone. Prima lo manda a lavorare come garzone di un salumiere, poi sostanzialmente appoggia la sua scelta di diventare un professionista del ciclismo. Allora non c’erano ancora le grandi fabbriche. Le vie di fuga, per chi non voleva più zappare la terra, non erano poi molte. Uno poteva tentare il Seminario, dove avrebbe potuto studiare gratuitamente. Mio padre ad esempio, per fuggire dalla campagna senese, si arruolò nei carabinieri. Il ciclismo era un’altra scelta. Il calcio, pur diffuso e in crescita, era ancora uno sport per studenti, piccoli borghesi, operai. Allora si giocava a ritmo lento, non era il frenetico gioco di oggi. Il ciclismo era, lo è anche oggi, una disciplina di fatica estrema. Allora era lo sport nazionale, quello che raccoglieva migliaia di persone sulle strade, spesso non asfaltate, delle gare. Chi se non un contadino, abituato a lavorare in giornate lunghissime, poteva sobbarcarsi il peso di percorrere centinaia di chilometri in bici, ogni giorno? Fausto lascia i campi e, con grande determinazione, diventa protagonista, entrando nella scuderia di Biagio Cavanna, un personaggio da mito greco, un massaggiatore cieco, grande scopritore di talenti e guru del ciclismo dell’epoca. Siamo prima della guerra. Il ciclismo è ancora lo sport di massa.
Poi c’è la parentesi bellica. Coppi fa in tempo a vincere il suo primo Giro d’Italia, pochi giorni prima del discorso mussoliniano del 10 giugno, quello dell’ora del destino
La guerra non è solo una parentesi per Fausto, che non è ancora maggiorenne il 10 giugno del 1940. Bartali ha appena compiuto ventisei anni ed è nel pieno della maturità atletica. Devono fermarsi, nella loro vita si apre una sorta di voragine nella quale spariscono le energie degli anni migliori. Coppi cade addirittura prigioniero. Lo stesso accade al paese, che si ferma, perde energie giovani, è piegato, se non distrutto, ma è in grado di reagire, come i suoi campioni. Già nel ‘44 Bartali e Coppi fanno parte di una sorta di compagnia di giro di ciclisti che si esibisce sulle strade polverose e sconnesse dell’Italia già liberata. Sono ancora in sella e il paese ha voglia di rivederli, di ricominciare a sognare. I due rivali sono davvero uno dei paradigmi della voglia di riscatto. Nel tour del 1948 Bartali recupera un distacco abissale, accumulato nelle prime giornate e arriva a Parigi in maglia gialla. In Italia la gente che comincia a dividersi fra lui e Coppi, cerca di recuperare il terreno perso con la guerra. È un paese ferito ma entusiasta, quello di quegli anni. È diviso, certo, la contrapposizione fra democristiani e comunisti è radicale, Coppi e Bartali scatenano passioni travolgenti. Gli italiani tornano a dividersi, dopo la cappa di conformismo, di pensiero unico, imposta dal fascismo. La divisione e la polemica sono sane, fanno crescere. La “guerra “fra Coppi e Bartali” fa vendere più giornali e più biciclette. E la bicicletta rende più facile la mobilità. L’automobile per tutti è ancora lontana da venire, la Vespa muove i suoi primi giri di ruota alla fine della guerra. La bici è il mezzo di locomozione di massa. Le squadre ciclistiche sono sponsorizzate da marche di biciclette. Non c’è nemmeno bisogno di ricordare il capolavoro di De Sica, per ricordare quanto quel mezzo fosse parte della nostra vita.
Molto è cambiato da quei tempi, ma le divisioni sportive esistono tuttora nella mentalità italiana.
Certo ma sono diventate meno sane. Lasciamo stare il fenomeno degli ultras del calcio, quei gruppi parapolitici in cui le ideologie condannate dalla storia tornano a manifestarsi sotto forma di tifo calcistico, per cui si vedono oramai striscioni inneggianti a Stalin, o svastiche sugli spalti. Quante volte, da tifoso della Lazio, mi sono dovuto vergognare di certi spettacoli. Anche l’invasione televisiva dei campi di calcio ha trasformato questo sport meraviglioso in un chiacchiericcio continuo. Si parla tantissimo di pallone. Si può seguire ogni evento in televisione così gli appassionati non sono motivati ad andare allo stadio. In tribuna stampa mettono dei monitor a disposizione dei cronisti. Andiamo in stadi semideserti per raccontare una partita vista da uno schermo.
In ogni caso Bartali e Coppi si scontrarono spesso, ma erano anche amici. La loro stima reciproca era altissima. Ambedue persero un fratello in gara, ambedue erano capaci di superare dalle difficoltà della vita e del loro lavoro senza piangersi addosso. Comunque il cattolico Bartali, il frate laico Bartali, non scagliò la prima pietra quando il rivale suscitò lo scandalo famoso della Dama Bianca, abbandonando la moglie e la figlia per costruire una nuova storia sentimentale: colpa, per quei tempi, terribile, un marchio d’infamia. Chi è giovane oggi fa fatica a realizzare il cambiamento che c’è stato nel nostro costume nazionale. Non ringrazieremo mai abbastanza Marco Pannella per il contributo che ha dato alla libertà personale degli italiani.
Bartali, dicevamo, cercò anche di aiutarlo, nell’ombra, facendolo parlare, con risultati scarsi, con un religioso. L’immaginario popolare identificò Bartali come un democristiano e, di conseguenza, Coppi come un eroe della sinistra. Coppi non si pronunciò mai sulla politica, Bartali fu antifascista durante il regime. Si rifiutò di dedicare la vittoria al Tour del 1938 al Duce, quando la nazionale italiana giocava i mondiali in Francia in divisa nera e facendo al pubblico il saluto romano. Erano in realtà due uomini liberi e anticonformisti, in una società piena di vitalità economica ma ancora fortemente segnata da una moralità molto tradizionale. Due gentiluomini, cifra di un tempo che finì, forse con la morte di Coppi, all’alba degli anni ’60, prima del dilagare della televisione e delle grandi lotte che portarono l’Italia a diventare un paese definitivamente moderno.
Un tempo irripetibile, giacché oggi viviamo in un’epoca di volgarità dominante?
Non sarei così pessimista. Anche questa ondata di negatività dovrà, prima o poi, esaurirsi. Sarò forse troppo ottimista, ma i segnali già ci sono. Mi è capitato di sentire Papa Francesco nella sua prima udienza, di percepire quel suo rispetto per i non credenti e per i non cattolici (“Vi benedico in silenzio”). Se un’istituzione millenaria come la Chiesa Cattolica è capace di questi gesti, di questi cambi di toni, niente è ancora perduto.
Un’ultima domanda, sul libro. Lei ha posizionato, dalle prime pagine, la leva del cambio sul registro della commozione e della malinconia, senza peraltro mai cadere nel patetismo e nella retorica, nella nostalgia a buon mercato, che affligge tanta stampa e tanta letteratura sportiva. Che fonti ha usato per questo racconto?
In effetti il registro malinconico attraversa tutto il mio libro. È una storia magnifica quella di Coppi, di cui si vorrebbe conoscere ogni dettaglio, ogni attimo. Tutti gli episodi di che ho citato sono veri: io li ho riscritti in forma di romanzo, cambiando alcune circostanze, inventandomi alcuni dialoghi, inserendo dei ricordi dello stesso Coppi ricavati da una vecchia intervista. Quella vita è una leggenda e le leggende corrono di bocca in bocca, di penna in penna: ogni volta che sono raccontate, sono diverse.