Enzo Verrengia
«Lo scorso anno è stata un’Italia cattiva, l’Italia sembrava Gotham City, ora il clima cambiato» ha dichiarato nelle scorse settimane il ministro della Cultura Dario Franceschini durante il programma Otto e mezzo, su La7. Gli ha fatto eco il capo della Polizia Franco Gabrielli, a ridosso dell’omicidio di Luca Sacchi: «Che Roma abbia i suoi problemi credo che nessuno lo disconosca, ma arrivare a rappresentare la nostra capitale come Gotham City…».
Gotham, il villaggio di pazzi del 1807
Due fra i massimi rappresentanti istituzionali evocano un’immaginaria metropoli ormai mitica, che però non appartenente alla cultura “alta”, bensì al fumetto. Certo, in entrambi i casi, rimarcata dalle versioni cinematografiche e televisive: al Festival di Venezia il Leone d’Oro è andato a Joker, il film di Todd Phillips dedicato all’arcinemico di Batman, cioè l’altra faccia della medaglia di Gotham City. La quale ha assunto il nome e la cornice di una serie televisiva di altrettanto successo, che ha dominato gli indici di ascolto per cinque stagioni. Ma vale la pena ricordare che il modello originale di riferimento è di natura fumettistica.
Gotham City nasce sulla carta, quale teatro ricorrente delle avventure dell’Uomo Pipistrello. Peraltro la sua denominazione deriva da quella che lo scrittore americano Washington Irving attribuì proprio a New York, in un numero del 1807 del periodico Salmagundi. All’epoca si trattava di mettere alla berlina la politica, la società e i costumi della grande città sorta sull’isola di Manhattan. Così Irving la ribattezzò “Gotham”, come si chiamava un piccolo villaggio inglese che secondo la tradizione era popolato di pazzi. L’ideale per Bob Kane, il creatore di Batman, quando decise di ambientarne le imprese in una metropoli che somigliava moltissimo a New York, ma, appunto, veniva reinventata per la sua saga a fumetti.
Accostare l’Italia e Roma, due riferimenti più che millenari della civiltà occidentale, all’iconografia della cultura di massa, oggi divenuta un blob digitale, non suona e non deve suonare irriverente, bensì far riflettere sui mutamenti espressivi, linguistici e quindi strutturali avvenuti nella comunicazione, nel pensiero e nei metri di giudizio in una società sempre più post-moderna.
Da La Malfa a Umberto Eco
I ministri e le autorità della Prima Repubblica, in anni neanche troppo remoti, ricorrevano a un patrimonio di idee essenzialmente basato sulla formazione classica. Si possono ricordare certe tribune politiche condotte da Jader Jacobelli, in cui Ugo La Malfa spiegava che per risanare la finanza pubblica, già allora in forte disavanzo, bisognava attuare la “politica dei redditi”, che nessuno o quasi capiva, e consisteva essenzialmente nel taglio anche doloroso delle spese e nel vivere non al di sopra delle proprie possibilità. A sua volta, il socialista Francesco De Martino si dilungava sugli “equilibri avanzati”, che consistevano nella posizione mediatrice del Psi (il Partito Socialista Italiano) tra maggioranza e opposizione, che Bettino Craxi seppe trasformare nella stagione trionfante della sua formazione parlamentare.
Sul versante giornalistico poi, Alberto Ronchey sciorinava dati presi da Le Monde, da The New York Times, da Le Journal de Geneve (da anni defunto), in un’epoca priva di Internet, quando consultare quei quotidiani era possibile soltanto con costosi abbonamenti o recandosi nelle edicole del centro di Roma e di Milano.
Tutto questo conferiva maggiore densità al dibattito pubblico o si trattava di una retorica volta ad escluderne gli strati meno “attrezzati”? È un giudizio che non compete all’osservatore distaccato, obiettivo e soprattutto insufflato di terzo millennio. Altrimenti si rischia il moralismo, o peggio, il passatismo.
Meglio quindi ricorrere all’erudita e impagabile lucidità di un uomo che resta ancora al passo con i tempi anche ora che non c’è più. Umberto Eco, nel 1964, pubblicò il saggio Apocalittici e integrati, in cui sosteneva che le forme artistiche considerate “basse” erano le più rappresentative dell’attualità. Tra di esse, al primo posto, poneva i fumetti.