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Primo Levi, versi splendidi di resistenza e di anatemi per i nazisti

Garzanti meritoriamente ripubblica dopo 35 anni “Ad ora incerta”, raccolta di poesie dello scrittore contro gli spettri più terribili

Primo Levi, versi splendidi di resistenza e di anatemi per i nazisti
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14 Settembre 2019 - 09.24


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di Alberto Fraccacreta

Non è detto che la poesia fluisca in maniera torrenziale, anzi. Più la vena lirica si fa avara (— amara l’anima), maggiore è la possibilità di scolpire il verso, di conferire una nettezza da ossidiana alla zigrinatura della pagina, di rendersi necessari. Montale ha scritto, almeno fino a Satura, un libro ogni dieci anni all’incirca. Di Sereni si conosceva proverbialmente la spilorceria della sua Musa. Primo Levi — di cui quest’anno si celebrano i cento anni dalla nascita — non è da meno.

Non propriamente poeta di razza ma allenato alle modulazioni salmodianti della tradizione ebraica, nella nota che apre Ad ora incerta, silloge ristampata oggi da Garzanti (pp. 160, € 15) a trentacinque anni dalla prima edizione, lo scrittore torinese confessa: «In alcuni momenti la poesia mi è sembrata più idonea della prosa per trasmettere un’idea o un’immagine. Non so dire perché, e non me ne sono mai preoccupato: conosco male le teorie della poetica, leggo poca poesia altrui, non credo alla sacertà dell’arte e neppure credo che questi miei versi siano eccellenti. Posso solo assicurare l’eventuale lettore che in rari istinti (in media, non più di una volta all’anno) singoli stimoli hanno assunto naturaliter una certa forma, che la mia metà razionale continua a considerare innaturale». Frasi affilate, chimici paraphernalia di un autodafé.

Raboni: un lavoro attento, tenace, orgoglioso
Secondo Levi, la poesia (o meglio, l’esigenza della poesia) nasce prima della prosa, dell’esigenza della prosa, ed è quindi naturale l’innaturalità di pensare e scrivere in versi. L’evento lirico diviene così una «spinta», «inscritta nel nostro patrimonio genetico», che capita heideggerianamente «ad intervalli». Ad ora incerta, splendido titolo tratto da un verso di Coleridge, è costituita da testi scritti tra il 1943 e il 1984 (a cui si aggiungono altri composti nel triennio successivo), con l’aggiunta di un quaderno di traduzioni «più musicali che filologiche, e piuttosto divertimenti che opere professionali».
Nel volume è compresa anche un’antologia critica con interventi di Cesare Segre, Franco Fortini e Giovanni Raboni. E proprio secondo Raboni — che, lupus in fabula, chiama in causa la non contemporaneità di Levi, riprendendo una formula che Pampaloni aveva utilizzato per Noventa —, la scrittura poetica del piemontese dà vita a «un lavoro attento, tenace, orgoglioso sulla specificità della pronuncia» e, tuttavia, «condotto al di fuori delle linee di ricerca tipiche e portanti della poesia italiana contemporanea, ma non nell’ignoranza di esse».

Prosa biblica fino a “Voi che vivete sicuri”
Questo perché Levi non sempre segue le circonvoluzioni organiche alla letteratura: è più spesso avvinto dagli scarti formali tipici della prosa biblica, dalla quale non sembra mai distaccarsi del tutto. Dalle cadenze classicheggianti e, in certa misura, betocchiane di Crescenzago, Buna e Cantare («Questo ed altro ci veniva in mente/ Mentre continuavamo a cantare;/ Ma erano cose come le nuvole,/ E difficili da spiegare»), alla brevitas caproniana — opaca e graffiante — di 25 febbraio 1944 («Vorrei credere qualcosa oltre,/ Oltre che morte ti ha disfatta./ Vorrei poter dire la forza/ Con cui desiderammo allora,/ Noi già sommersi,/ Di potere ancora una volta insieme/ Camminare liberi sotto il sole»), fino all’irripetibile, insuperabile voce di Shemà, il capolavoro poetico di Levi che figura anche in esergo di Se questo è un uomo, con quel suo incipit folgorante: «Voi che vivete sicuri/ Nelle vostre tiepide case,/ Voi che trovate tornando a sera/ Il cibo caldo e visi amici:// Considerate se questo è un uomo».

Come spiega lo stesso autore nelle note esplicative, «Shemà significa “Ascolta!” in ebraico. È la prima parola della preghiera fondamentale dell’ebraismo, in cui si afferma l’unità di Dio. Alcuni versi di questa poesia ne sono una parafrasi». L’ascolto, invocato con una virulenza senza pari, è un invito a meditare «che questo è stato»: che non si ripeta più, che «queste parole» siano scolpite nel «cuore», come una maledizione a cui non è possibile scampare.

Non si esce dall’esperienza dei lager
L’esperienza dei lager, una volta entrata nella poesia di Levi, non ne esce più: quasi a ribaltare il monito di Adorno («Dopo Auschwitz, nessuna poesia, nessuna forma d’arte, nessuna affermazione creatrice è più possibile»), Auschwitz diventa l’oggetto precipuo della poesia — certo, di una poesia dell’impossibile, del tragico, dell’atroce —, come nella durissima Alzarsi: «Ora abbiamo ritrovato la casa,/ Il nostro ventre è sazio,/ Abbiamo finito di raccontare./ È tempo. Presto udremo ancora/ Il comando straniero:/ Wstawać”». Poesia, però, audace e “resistente” che lotta contro gli spettri della memoria. Tutta l’esistenza di Levi si raggrinzisce per fare spazio alla più terribile delle umane esperienze. Addirittura scrive un Per Adolf Eichmann: «Tu creatura deserta, uomo cerchiato di morte». Parole al vetriolo, erosive. «O figlio della morte, non ti auguriamo la morte./ Possa tu vivere a lungo quanto nessuno mai visse:/ possa tu vivere insonne cinque milioni di notti». Anatemi.

Prosatore asciutto e basaltico, maestro di un verso ridotto all’osso e di una linea israelita della poesia (più vicina a Natan Zach che a Luzi, ad esempio) che non si ricordava così fortemente venefica, così ustionante dal verso di Saba, Levi non è soltanto un autore “di testimonianza”: è un classico irremovibile della nostra letteratura che va letto e riscoperto (si pensi ai caleidoscopici racconti del Sistema periodico), proprio per la paradossale energia astorica con cui ha saputo raccontare in prosa e in versi il più drammatico, circoscritto e vivisezionato degli eventi, la Shoah.

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