Marco Buttafuoco
Nell’ambito della pubblicazione dell’opera omnia di Jorge Luis Borges (1899-1986) Adelphi ha dato alle stampe questo libretto, curato benissimo da Tommaso Scarano, sul tango (J. L. Borges, Il Tango, Adelphi, pp 170, 14 €, Ebook 7,99). Il lettore che chiedesse a queste pagine vere e sorprendenti notizie su questa musica, rimarrebbe probabilmente un po’ deluso. Queste quattro conferenze, tenute nel 1965, riprendono, senza un particolare approfondimento, quanto Borges aveva scritto dieci anni prima in un breve scritto “Storia del Tango” pubblicato nella seconda edizione di Evaristo Carriego. Scriveva allora: “Musicalmente, il tango non è importante; la sua unica importanza è quella che gli attribuiamo… ma esso racchiude in sé, come tutto ciò che è autentico, un segreto”.
È di questo segreto, di quel sentimento allegro e malinconico che si prova rievocando gli anni perduti della nostra comunità di appartenenza, mitizzandoli, che racconta Borges in queste “chiacchierate” (lui stesso invita il pubblico a non chiamarle conferenze; non vuole insegnare niente, è lì per conversare e, possibilmente, apprendere nuove storie). La sua scrittura purissima qui si fa familiare, divertita. Le stesse conferenze sembrano condotte quasi a braccio.
Nella prima pagina della prima conferenza annuncia all’uditorio che, forse, proverà a stabilire qualche paragone con il jazz, anche quello californiano degli anni ’50 ; successivamente accenna a possibili origini africane del tango (la parola, come milonga, ha un suono “nero”) e parla delle prime orchestrine (piano, flauto e violino) che suonavano nei bordelli di Baires, ma lascia questi argomenti un po’ in sospeso. Quello che ha lui interessa è il terreno su cui il tango ha messo le radici; le periferie polverose dei “cenciosi sobborghi ” portegni, gli angoli di strada in cui coppie di uomini (per le donne, in quei tempi, era una danza indecente) ballavano un tango rissoso e tracotante e un altro ballo, quello del coltello. Racconta la “nobleza gaucha”, è affascinato dalle sfide (le racconta, d’altronde, in tutta la sua opera) fra i maestri della lama corta e dai rituali che precedevano, o evitavano, questi scontri sanguinosi.
Un mondo maschile
Non ci sono donne in questa festa dell’innocenza e del coraggio. È un mondo maschile. Di quello che il tango è diventato dopo Borges parla, ma con distacco. Il tango cancion, chiaramente, non lo interessa più di tanto. Liquida Gardel con pochi cenni in cui sembra trasparire un lieve fastidio per il fatto che Carlitos sia di nascita francese. Ne riconosce la grandezza, ma non si esalta nel parlarne. Non è un suo mito.
Anche dell’influenza delle comunità immigrate sulla musica argentina Borges non si cura molto. Smentisce ancora una volta (la prima lo aveva già fatto nel testo del 1955 già citato) la sua ipotesi del 1926, secondo la quale che gli immigrati italiani avevano snaturato l’anima allegra e rissosa del tango, trasformandolo “in una voce risentita che deplora con eccessi sentimentali la propria infelicità e si rallegra delle disgrazie altrui”. Questo è successo, il tango è diventato questo, ma la colpa non è dei soli italiani.
Un’elegia della vecchia Baires
I primi tanghi, quelli che lui amava, erano firmati da artisti che si chiamavano d’altronde Greco, Bevilacqua, De Bassi. Il bandoneon, venuto dalla Germania, ha certo influito sul linguaggio del tango, non è più lo strumento “codardo” di cui parlava quarant’anni prima ma lo scrittore sogna ed esalta la chitarra umile e coraggiosa.
Queste conferenze sono un’elegia della vecchia Baires, dei suoi quartieri popolari, “frontiere di combattimenti e di chitarre”, di quella che lui stesso definì “ una spensierata miseria”. Il tango, quello delle origini, è la colonna sonora, allegra e sfrontata, di quei suburbi turbolenti che il mite, raffinatissimo scrittore cieco, vagheggiava.
Borges e Piazzolla non si intendevano
Anche in queste amabili conversazioni c’è il miglior Borges (ma ne esiste uno minore?). Qualcuno ha fatto notare che, sempre nel 1965 uscì un disco, El Tango, nel quale Astor Piazzolla mise in musica alcune poesie dell’autore di Finzioni. Un incisione non riuscitissima, che incanta l’ascoltatore solo a tratti . La definitiva biografia di Piazzolla scritta da Diego Fisherman e Abel Gilbert rivela tuttavia i due si amassero poco e si intendessero ancor meno.
Piazzolla non riusciva ancora a modellare la sua musica sulla necessità del verso scritto. Borges non era certo a suo agio nelle sonorità contemporanee in cui l’autore di Libertango immergeva le sue storie di guappi e cuchilleros D’altronde, sapeva poco di musica. Una volta uscito il disco i due si persero di vista. Erano diversi, certo, ma detestavano entrambi la frase attribuita a Ernesto Sabato, e che tanto successo ha avuto nell’immaginario collettivo, secondo la quale “il tango è un pensiero triste che si balla”.
J. L. Borges, Il Tango, Adelphi, pp 170, 14 €, Ebook 7,99