Enzo Verrengia
Esistono autori che sembrano scrivere da un altrove appartenente solo a loro stessi. E questo non va attribuito al fatto di praticare il genere fantastico. Perché è la qualità propria della scrittura a renderli eremiti di mondi e universi dove le menti comuni possono avventurarsi dall’esterno, con la lettura, ma non penetrarli dall’interno, come coloro che li esplorano dalla parte scritta della pagina. Succede per Howard Phillips Lovecraft.
Soprannominato “il solitario di Providence”, la sua cittadina natale del Rhode Island, dalla quale si allontanò unicamente per un matrimonio finito in divorzio, lo scrittore ha lasciato un’impronta che travalica la fantascienza e l’horror, i suoi due ambiti di azione. La prosa labirintica e ossessiva di Lovecraft è un anticipo della condizione post-moderna, caratterizzata da un’intelligenza che si sforza di concepire e comprendere senza riuscirci i suoi stessi esiti estremi.
L’umanità frutto di maneggi genetici
Il corpus dei racconti di Lovecraft si sviluppa intorno a riferimenti che tornano. Providence diviene Arkham, e l’università locale si chiama Miskatonic. Fra questi due poli oscillano le scoperte fondamentali degli allucinati protagonisti di Lovecraft. Scoperte che assommano a una cosmologia. L’umanità è frutto dei maneggi genetici orditi dagli Antichi, esseri di origine extraplanetaria, o di più, extradimensionale. Guai a incappare nei resti della loro presenza sulla superficie della Terra.
Perciò il sapore della dannazione aleggia fin dagli inizi de Le montagne della follia, il titolo più rappresentativo di questo ciclo, riproposto dalla Mondadori insieme a Il caso di Charles Dexter Ward, con un’indispensabile prefazione del compianto Giuseppe Lippi, cui è dedicato il volume che non ha avuto il tempo di vedere pubblicato. Uno dei maggiori esperti di letteratura fantastica, non si limita a riassumere e codificare il canone del “solitario di Providence”. Lo esplora a fondo in pagine che già da sole fanno narrazione, e sembrano preludere in dissolvenza incrociata a quelle di Lovecraft. Scrive Lippi: «La teoria dell’orrore di Lovecraft prevede che l’elemento centrale del componimento fantastico sia l’atmosfera, e che l’atmosfera vada costruita per gradi, posando i mattoni come in una gran casa turrita».
Gli Antichi nell’Antartide
Immagine non peregrina. Le montagne della follia è la cronaca devastante di una spedizione geologica nell’Antartide finanziata dalla Miskatonic University. Si tratterebbe di studiare gli strati continentali per ottenere nuove informazioni sulla preistoria. Sennonché, gli scienziati incappano nelle testimonianze concrete degli Antichi. A quel punto, la scansione degli avvenimenti, compulsati anche nella forma del diario, sconfina dall’esposizione ragionata al delirio. Le montagne della follia perdono ogni possibile configurazione orografica, per quanto Lippi cerchi addirittura di ritrovarne corrispondenze nella mappatura concreta dell’Antartide.
La stessa furia degli elementi, le tempeste polari, le raffiche di venti dalla portata degli uragani, acquisiscono le parvenze dell’inspiegabile. Attenzione: non del soprannaturale. Howard Phillips Lovecraft non perde mai il contatto con gli aspetti scientifici della sua trama da incubo. Tranne che si tratta pur sempre di nozioni ben lontane dall’ordinario e dall’empirico. Inoltre, la scenografia polare riconnette il romanzo con Le avventure di Gordon Pym, di Edgar Allan Poe, citato esplicitamente nelle prime pagine. Libro incompiuto, che si chiude con l’avvistamento di un’enigmatica sfinge dei ghiacci sulla quale tornò poi Jules Verne.
Finché, a rileggere nel 2019 Le montagne della follia sorge un sospetto spiazzante. Gli Antichi di Lovecraft non hanno più bisogno di celarsi ai limiti della geografia terrestre. Ora imperversano liberamente nell’irrazionale quotidiano. Lovecraft li ha stanati e loro ne hanno approfittato per tornare a scorazzare fra le creature inadeguate che popolano questo mondo.
Charles Dexter Ward, l’alienazione di un giovane studioso
Per Il caso di Charles Dexter Ward, Lippi è provvido di informazioni filologiche. Non certo finalizzate, però, al mero sfoggio di erudizione. Quello che gli interessa è rapportare, a beneficio dei lettori, il plot alla biografia di Lovecraft, nella quale domina, come per il suo protagonista «il tema dell’alienazione di un giovane studioso dai gusti antiquari, della sua separazione dagli affetti familiari e la tragica odissea in cui s’imbarca per troppo “amore del passato”».
Il rifiuto della realtà e dell’editing
Gli Stati Uniti nei quali l’inventore dei miti di Cthulhu visse l’arco maggiore dell’esistenza furono quelli che precedettero la Grande Depressione del 1929. Sesso, successo e denaro vi dominarono in una replica anticipata di oggi. Ma Lovecraft si annidò a Providence, per coltivare il rifiuto della realtà. Anche quando cominciò a pubblicare sulle riviste pulp di quegli anni, non mirava a diventare un benestante venditore di parole. In una lettera del 1923, Lovecraft si rivolgeva al direttore di Weird Tales per sottoporgli cinque racconti. Nella prosa di un gentiluomo vittoriano, il solitario di Providence precisava di non desiderare tagli e revisioni a quanto aveva elaborato. Preferiva un rifiuto. L’esatto contrario del professionista che conosce e accetta i meccanismi dell’editing e delle manipolazioni vigenti nell’industria della cultura di massa.
Il migliore allievo contemporanea di Howard Phillips Lovecraft è senza dubbio Stephen King, che di lui ha affermato: «Se vi accostante al Principe Nero di Providence per la prima volta, non potreste avere un inizio più allettante ed eccitante».
Howard Phillips Lovecraft, Le montagne della follia e Il caso di Charles Dexter Ward (Mondadori, tr. di Giuseppe Lippi, pp. 296, Euro 14,00)