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Di Ruscio, quando il poeta in fabbrica "è straniero e puzza"

Esce un'antologia di un autore che dalla condizione operaia raccontava la condizione umana. Il critico Raffaeli: "Un antidoto al pensiero unico"

Di Ruscio, quando il poeta in fabbrica "è straniero e puzza"
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16 Febbraio 2019 - 18.06


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Ovunque lʼultimo
per questa razza orribile di primi
ultimo nella sua terra a mille lire a giornata
ultimo in questa nuova terra
per la sua voce italiana
ultimo ad odiare
e lʼodio di questʼuomo vi marca tutti
schiodato e crocifisso in ogni ora
dannato per un mondo di dannati.

Avete appena letto la poesia “Ovunque l’ultimo”: è tratta dal volume Luigi Di Ruscio, Poesie scelte 1953-2010 (Marcosy y Marcos, a cura di Massimo Gezzi, pp. 376, € 20,00). Come recita il titolo, è una selezione di un autore fluviale che ha scritto per tutta la vita ed è rimasto nell’ombra: nato a Fermo nel 1930 e morto a Oslo nel 2011, si è formato come un autodidatta e nel 1957 emigrò in Norvegia dove visse lavorando alla catena di montaggio in una fabbrica metallurgica.

Raffaeli: una poesia emersa nella crisi economico-politica
Il volume è un’antologia sulle tracce che indicò a suo tempo Di Ruscio stesso al  giornalista-scrittore originario della città marchigiana di Fermo Angelo Ferracuti e comprende selezioni dalle varie raccolte a partire dallʼesordio, Non possiamo abituarci a morire del 1953. «Per decenni rimasta in uno stato di marginalità geografica e di semiclandestinità editoriale (a parte il consenso di alcuni mallevadori dʼeccezione, quali Franco Fortini, Salvatore Quasimodo, Giancarlo Majorino, Antonio Porta) la poesia di Luigi Di Ruscio è emersa allʼimprovviso come un iceberg al passaggio del millennio e dunque nel contesto di una grave crisi sistemica, innanzi tutto economico-politica, che ne ha svelata finalmente lʼessenzialità, in senso stretto e perfino etimologico». Massimo Raffaeli sintetizza così, nellʼincipit della sua prefazione al volume, chi è questo autore conosciuto e amato da lettori esigenti.

«Luigi Di Ruscio non è stato né un poeta operaio né un operaio poeta ma, più semplicemente, qualcuno che ha saputo tradurre con i mezzi della poesia la condizione operaia nella condizione umana tout court», – puntualizza Raffaeli onde evitare etichette di comodo e fraintendimenti. «La sua scrittura – scrive inoltre nel brano pubblicato dallʼeditore sul suo sito web – si produce al crepuscolo in un appartamento della periferia di Oslo, nella stanza piena di carte in cui domina una vecchia Olivetti. Nessuno in casa parla lʼitaliano, né sua moglie Mary né i quattro figli, così come nessuno immagina in fabbrica la sua attività di scrittore, ma è proprio questa doppia condizione di parzialità a garantire alla sua poesia il segno della totalità compiuta. Essere ʼsottoʼ e nel frattempo essere ʼfuoriʼ significa per lui non poter essere che lì, eternamente, sulla pagina. Egli non deve nemmeno liberarsi di zavorra eccessiva e, pure se in realtà ha letto tutti i libri, proclama la propria ignoranza menzionando pochissimi riferimenti dʼavvio come i sillabati di Ungaretti e Lavorare stanca di Pavese. Benché parli volentieri neanche in italiano ma in dialetto fermano, in realtà conosce le lingue, traduce le liriche di Ibsen dal norvegese, legge di continuo i filosofi, ed è dalle lezioni di estetica di Hegel che deduce una volta per tutte lʼidea secondo cui la poesia corrisponde a una coscienza disgregata che nella sua inversione si esprime in un linguaggio scintillante capace di verità. Per questo in ogni poesia di Di Ruscio cʼè potenzialmente tutta la sua poesia e la sua intera produzione (dalla plaquette dʼesordio, passando fra lʼaltro per Apprendistati, ʼ78, Istruzioni per lʼuso della repressione, ʼ80, fino alle clausole sapienziali de Lʼiddio ridente, 2008) ha la circolarità di un autentico poema».

“Italiano straniero che puzza ed esiste”
Il critico annota più oltre: «Leggere Di Ruscio, che dai bassi della condizione proletaria amava ripetere con Joyce che noi abbiamo meno speranze di una palla di neve allʼinferno, è comunque un antidoto a quanto oggi si chiama, crisma di una egemonia proterva e planetaria, il Pensiero Unico». E dal «testo rubricato al numero CCCXIV del poema complessivo» Raffaeli riporta questi versi che echeggiano con chiarezza anche nei nostri giorni: “[…] la fabbrica è lʼultima stazione / se ti licenziano è come se venissi sputato nellʼignoto / in una caduta che non verrà attutita / lʼoperaio metalmeccanico è attaccato a qualcosa di diabolico / il paesaggio dice che lavorare / per lʼavvenire sotto i comunisti era ancora peggio / qualche macchina ferma sembra una cassa da morto / per chi sta veramente male / mettersi sotto cassa malattia è difficile / di questo italiano straniero non sappiamo niente / si sa solo che puzza ed esiste”».

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