di Daniela Amenta
Le donne incontrate nelle canzoni di Fabrizio De André ci hanno accompagnato nella vita. E’ bastato incrociare il loro sguardo perché ne diventassero parte: con il loro mistero, il loro coraggio, la dignità. Senza etichette, senza giudizio: esistono, bisogna solo ascoltarle. Nasce per questo, in tal modo Princesa e altre regine – Venti voci per le donne di De André (Giunti editore), pubblicato l’8 marzo del 2018.
“Questo libro è nato così” scrive Concita De Gregorio che ha curato l’intero progetto, “dalla meraviglia di trovarsi in tante, insieme, ad ascoltare (…). Queste voci hanno tutte, mi pare, un tratto in comune con Fabrizio De André. La fragilità inossidabile. La pervicacia nel procedere in direzione ostinata e contraria. Una ferita. Una debolezza nascosta dal movimento ed esibita nella solitudine. Un ciuffo di capelli che come una tenda lascia uno spiraglio e intanto ti ripara dal mondo, consentendoti di vederlo più a fuoco. (…) In venti, qui, abbiamo ascoltato la musica, condiviso le parole, curato queste pagine che adesso arrivano a voi nella speranza che sappiano, con voi, fare altrettanto. Che siano le storie a leggervi mentre le leggete”.
Bocca di Rosa, Angiolina, DolceNera, Maria, Marinella, Jamina-A, le prostitute, le Madonne, le traditrici e le tradite, le vinte e la Princesa. Venti donne che hanno accompagnato la vita di venti scrittrici, che hanno fatto la cosa più difficile del mondo: si sono messe in silenzio ad ascoltare le loro parole. Senza etichette, senza giudizio. A far parte del progetto Guia Besana, Daniela Amenta, Ursula Ferrara (che ha curato la meravigliosa copertina), Melissa Panarello, Valentina Pedicini, Lorenza Pieri, Silvia Ziche, Barbara Di Gregorio, Silvia Camporesi, Enrica Tesio, Letizia Rubegni, Francesca Genti, Francesca Borri, Emmanuela Carbé, Beatrice Alemagna, Carmen Pellegrino, Valentina Farinaccio, Maria Grazia Calandrone, Sara Colaone. Disegni, racconti, poesie per narrare l’amico fragile e i suoi molteplici, complessi universi femminili.
Noi vi proponiamo un frammento del racconto di Daniela Amenta, giornalista, scrittrice, commentatrice ed editorialista di Globalist. E’ il testo che apre il libro. Dentro ci troverete la Sardegna di De André e Dori Ghezzi, il realismo magico, il sogno e la passione, le nuvole basse sull’Isola e le leggende che sembrano verità sulle note di Volta Carta.
Andò così, andò che Madama Dorè fece le carte a mia nonna che era all’ottavo mese e aveva una pancia gonfia come un dirigibile. Si misero sotto l’albero di sughero, questo proprio questo, questo che fa ombra a me e a lei, signore. E le disse: non è un maschio, Mariuccia. Il tuo unico figlio sarà una femmina macca. Macca lo capisce che vuol dire? La comprende la mia lingua signore?
Pazza sì, pazza e ribelle. Si chiamerà Angiolina, annunciò la Madama.
Mia nonna Mariuccia sospirò così forte che quel fiato risucchiato in gola si trasformò in un’eco, un tuono. Dicono che lo sentirono fino in Gallura il sospiro di Mariuccia, dicono che la gente pensò stesse arrivando una tromba d’aria e tutti si nascosero tra le stalle e i filari. Ma questa è terra di leggenda, signore, oh sì, è così, qui confondiamo il mare con l’orizzonte, parliamo con le nuvole che vanno e vengono e ci lasciano una voglia di pioggia incollata sul petto. Vediamo bestie, profili, scritte fatte con le nubi. Vediamo presagi. Vediamo cose, movimenti. Vediamo segni. Ci vediamo, ci riflettiamo come se il cielo fosse specchio.
Ma lei è qui perché vuole sapere di mia madre, giusto? Angiolina la bella con le scarpe blu e la collana di conchiglie e ossi di pesca. Vuole che le conti la leggenda della ragazza ribelle e della sua banda. Mi sembra così strano parlarne con uno sconosciuto. Vorrei chiederle come la storia di mamma è arrivata fino alle sue orecchie. Di dov’è signore? Da dove arriva? Che mestiere fa? Oh il musicista. Lei è musicista, quindi.
Cosa dice? Essì ha ragione, le faccende strane volano di bocca in bocca come frecce scoccate dall’arco. E allora si metta paziente. Voltiamo le carte. Vediamo qual è la prima. Giri pure.
Un sei di coppe. Indica la nostalgia, il passato.
E dal passato cominciamo. Dalla maghiarja, la maga, così la chiamavano in paese. Il suo nome, per intero, è Madama Dorè. Quelli istruiti pronunciavano “madame”. Oh qui corre voce sia ancora viva. Dovrebbe avere 170 anni, penso. Dicono che ora abiti alla Torre dei Corsari, curi il morbillo con le erbe nel giorno del solstizio, sia capace di guarire l’ittero dei neonati e la spina bifida dei cavalli, faccia le carte alle donne prinze, voglio dire incinte, e agli uomini con la malinconia, quelli così tristi e soli e sconsolati che si innamorano delle asine Dicono che viva in un vecchio faro da dove si vede il nuovo mondo senza il binocolo, in compagnia di millecinquecento gatti di ogni colore che si accoppiano con volpi e lupi, che pescano orate e triglie con le zampe, che cacciano lepri e fagiani, che scovano asparagi e uova di fenicotteri e portano tutto al faro, perché Madama ogni sera s’acconzi una cena da regina. E poi dicono che quando cala la luna lei se ne vada fin sulla scogliera, con il seguito dei gatti mansueti come vecchi rintronati, in fila quasi fossero pecore, e lanci tra le onde sei rose rosse, rosse più del sangue
Mia nonna ne aveva rispetto e paura. Si ricordava con precisione lo sguardo, le mani sulla pancia. Quella profezia che le fece, quella voce con la erre appena lasca: “Mariuccia cara, covi dentro di te una stella e un abominio. Si chiamerà Angiolina, la più femmina delle femmine. Sarà macca e tutti saranno pazzi di lei. Uomini e donne”.
Nonna mi raccontava che la Madama era arrivata qui, in paese, all’improvviso, come un fulmine in estate. Veniva da Marsiglia a bordo di un bastimento così vecchio che il legno della prua era fatto di sale, chele di aragoste e pezzi di corallo tante onde aveva preso e tagliato in due, e lei era scesa da quell’incrocio di tavole marce e vele lise vestita completamente di viola. Con sé aveva un unico baule pieno di cipria, profumi, una bottiglia di alcol verde come un ramarro e un solo mazzo di carte. Quello, quel mazzo, intendo dire. Dicevano che aveva avuto sei figli e li aveva persi uno a uno durante la traversata durata un anno intero, segnata da tempeste tremende e mesi senza vento, calma piatta e sole che ammazzava la testa e i polmoni. Dicevano che ogni volta, per ogni figlio imbracato nelle reti e lasciato nel cimitero del Mediterraneo profondissimo e blu, non aveva pianto mai. O forse sì. Ma il mare è salato come le lacrime e alla fine tutto si confonde, tutto si unisce, tutto si mescola.
Chissà perché scelse di stare qui che ci sono solo pietre dure, che scalzarle dai campi è una maledizione, pietre e rocce rosse che si mangiano la vita dei germogli e pure la nostra. Noi che zappiamo ogni giorno sapendo di sfidare il Dio del creato, dei crateri e della perseveranza. Non so come, perché, ma la Madama venne qui. E io, signore, visto che me lo chiede ho un pensiero da confessarle: credo che scelse questa contrada ispida solo per incontrare mia mamma Angiolina. Che avessero un appuntamento, insomma.
Ci crede nel destino, signore? Volti un’altra carta, allora. Vediamo. Oh, è uscito il cavaliere di denari. E’ la fiducia, il contatto, la buona novella e l’amico fragile. Forse rappresenta lei, signore. Il forestiero. Mi prenderà per una visionaria. Ma qui è diverso che laggiù dove la terra è ferma. Mi ascolta, monsieur? E’ che noi abbiamo tutto questo mare attorno che non è una ciambella ma solo la fine dei campi, degli scogli, del nostro regno. Abbiamo noi stessi da farci bastare e quando è inverno e la notte arriva presto allora ci contiamo fatti strani per tenerci svegli. Contamusu, mi capisce? Raccontiamo sì, si dice così. montagna che si sbriciolava come un biscotto. Salivamo veloci, con il passo dei bambini: gambe toste e polmoni aperti, senza dire una parola. Passò un’ora, due, mi illuminavo i piedi con la lanterna, facevo strada tra rovi e ortica e ragnatele immense e zampe di alberi giganti alla compagnia dei nenneddi, i piccolini. Ogni grugnito di cinghiale un sussulto, ogni voce di barbagianni un fiato che si spezzava, ogni ululato un tremito. Neppure l’acqua bevemmo tanta era la paura. E su, e su, finché il paese sparì e la notte divenne fonda come un pozzo.
(….) Copyright Scrittori Giunti – Fondazione Fabrizio De André Onlus