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Silvia Albertazzi: vi dimostro perché Leonard Cohen è uno scrittore vero

La musica ha oscurato la sua opera letteraria: un estratto dal saggio “Leonard Cohen. Manuale per vivere nella sconfitta” che la studiosa presenta a Bologna

Silvia Albertazzi: vi dimostro perché Leonard Cohen è uno scrittore vero
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3 Novembre 2018 - 17.28


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Leonard Cohen prima di debuttare come cantautore alla metà degli anni ’60 dalla metà degli anni ’50 era poeta e romanziere. Apprezzato peraltro. “Leonard Cohen. Manuale per vivere nella sconfitta” (Paginauno editore, 235 pagine, 19 €) è il saggio che la studiosa Silvia Albertazzi, presenta insieme a Gino Scatasta mercoledì 7 novembre alle 18.30 alla Ono Galleria d’arte contemporanea in via S. Margherita 10 a Bologna.
Dal titolo affascinante e azzeccatissimo per l’autore canadese nato a Montréal il 21 settembre 1934 e morto a Los Angeles il 7 novembre 2016 (un suo romanzo si intitola “Belli e perdenti”), lo studio attesta come Cohen appartenga “al mondo delle lettere” e quanto sia da inscrivere “in un contesto di World Literature, senza più separare il poeta e il romanziere dal cantautore”. In breve Silvia Albertazzi, che insegna Letteratura dei paesi di lingua inglese e Storia della cultura inglese all’Università di Bologna, “dimostra come poesia, narrativa e canzone costituiscano per Cohen un’unica forma espressiva in continua evoluzione”. Da “Leonard Cohen. Manuale per vivere nella sconfitta” pubblichiamo un estratto scelto dall’autrice stessa.

 

Silvia Albertazzi: il cantautore ha oscurato lo scrittore

Leonard Cohen se n’è andato, il 7 novembre 2016, consegnandoci un viatico musicale, You Want It Darker, che ora risuona come colonna sonora della sua dipartita e monito rivolto a chi resta. Al pari di David Bowie, scomparso all’inizio dello stesso anno lasciando un notevole disco d’addio, Blackstar, Cohen lega alla morte il suo estremo lavoro in maniera inequivocabile e al contempo suggestiva, offrendo, come il musicista inglese, un’opera di considerevole valore musicale e poetico, degna di reggere il confronto e figurare alla pari con i suoi capolavori del passato. Questo coronamento di una carriera di per sé eccezionale ha portato, però, a relegare ulteriormente le opere narrative e la poesia scritta di Cohen in quel dimenticatoio – o, nella migliore (?) delle ipotesi, in quel ghetto accademico – in cui giacciono ormai da parecchi decenni (da quando, cioè, il poeta-cantante si è imposto all’attenzione del grande pubblico, mettendo sempre più in ombra il letterato).
Se, come scrive Dyer, l’eccessiva attenzione alla cronologia rischia di farci dimenticare le opere che riscattano una vita, in questo libro, pur osservando in superficie un ordine cronologico, ho cercato di dare spazio al corpus coheniano nella sua totalità, sottolineando altresì come i lavori più importanti non siano sempre e necessariamente quelli più famosi e più acclamati dalla critica o dal pubblico. Così, mentre, da un lato, mi sono sforzata di restituire alla canzone il suo valore letterario, dall’altro ho operato un ripescaggio degli scritti di Cohen, nel tentativo di dimostrare come la qualità poetica universalmente riconosciuta alle sue canzoni e lo spessore etico e religioso delle sue tematiche provengano da quell’attenzione tanto alla parola scritta e alla sua musicalità quanto a problematiche esistenziali e filosofiche che caratterizza e rende uniche le sue prove di scrittura.
Nel discorso di accettazione del prestigioso premio letterario spagnolo Principe delle Asturie, Cohen ha affermato: “La poesia viene da un luogo che nessuno comanda e nessuno conquista. Per questo mi sento come un ciarlatano ad accettare un premio per un’attività su cui non ho alcun comando” (2011). Al contrario, presunzione (quando non arroganza) della critica è proprio “avere comando” sulla materia analizzata: questo spiega perché nella pur vastissima bibliografia saggistica su Cohen siano così rari i testi che trattano l’opera del canadese nella sua interezza o che anche soltanto mettono a confronto elementi comuni agli scritti e alle canzoni. Il successo planetario rinverdito ed esaltato dai concerti tenuti in tutto il mondo a partire dal 2008 ha finito con l’obliterare la produzione narrativa e poetica di Cohen, invece che riportarla alla luce, rinfocolando al contempo i pregiudizi contro la canzone intesa come poesia popolare, di massa, prodotto di consumo destinato a una fruizione immediata.

I critici accademici

Se tutti sono d’accordo nel considerare Cohen un poeta della canzone, più difficile è trovare critici accademici disposti a occuparsi della sua poesia per musica o almeno a inserirla nei loro studi sul romanziere e il poeta. Nell’ultimo decennio si sono moltiplicati i lavori sul cantautore e le biografie ad opera di critici musicali o esperti del settore, mentre i saggi sul letterato, nei quali quasi mai è menzione del suo lavoro musicale, sono reperibili soprattutto su riviste accademiche e giornali letterari. L’opera completa di Cohen è analizzata soltanto – e con tutte le lacune del caso, ovviamente – in raccolte collettanee, mentre bisogna risalire a diversi decenni or sono per trovare monografie esaustive o quanto meno soddisfacenti. Lo stesso Stephen Scobie, cui si deve lo studio del 1978 più volte citato nel corso del presente lavoro, pur non avendo cessato di interessarsi a Cohen, non ha mai aggiornato il suo saggio seminale, limitandosi, alla fine degli anni Novanta del secolo scorso, a curare un numero speciale della rivista Essays on Canadian Writing, poi divenuto un volume miscellaneo dal titolo Intricate Preparations. Writing Leonard Cohen, nella cui introduzione Scobie affermava di voler “rappresentare la natura paradossale della reputazione e della ricezione di Cohen” (2000, 3), affiancando a dotti studi accademici discussioni meno formali, ma non per questo meno brillanti, su alcune canzoni. A riprova del fatto che chi scrive di Cohen finisce per scrivere di sé, Scobie chiudeva con queste parole:

Ricordo la prima volta che ho visto Cohen, a un reading di poesia a Vancouver nel 1966. Entrò a grandi passi in un’enorme aula universitaria stipata di ascoltatori entusiasti, e con nostra grande sorpresa aveva una chitarra sotto il braccio. Eravamo perplessi. La maggior parte di noi attendeva il poeta romantico di The Spice-Box of Earth; alcuni altri (incluso me) avevano sperato segretamente di sentire il sorprendente romanziere autore dell’appena pubblicato Beautiful Losers. Nessuno era preparato per una chitarra strimpellata e una canzone ammaliante su una donna chiamata Suzanne. Così fummo tutti sbalorditi. Un terzo di secolo più tardi, io lo sono ancora. (ivi, 4).
Ho citato per intero la chiusa dell’introduzione di Scobie, perché in essa si possono ritrovare tutti gli elementi che caratterizzano l’unicità di Leonard Cohen: il problema della ricezione, ovvero la difficoltà di accettare la coesistenza dei suoi due mondi letterari; la capacità di sconvolgere le aspettative di pubblico e critica; la componente ipnotica, ammaliante, della sua parola (tanto scritta quanto musicata); l’impossibilità di uscire dal suo cerchio magico, una volta che se ne siano oltrepassati i confini. “Parole crudeli e voce che culla”: così una scrittrice e traduttrice canadese francofona, Hélène Rioux, ha sintetizzato l’essenza della canzone coheniana, per poi aggiungere che “Longing” è il termine che meglio definisce l’universo di Cohen, una parola difficile da tradurre, così intimamente legata all’inglese, da non potersi rendere che approssimativamente in qualsiasi altra lingua (Rioux 2016, 131). Longing è qualcosa più del “desiderio” con cui lo traduciamo in italiano:
C’è come un dolore in questo desiderio. Come una richiesta. La speranza e l’impazienza, una sorta di pianto, quasi un grido. Non poterne più di attendere. L’attesa, ma più dell’attesa, più della speranza. Se è attesa, un’attesa che resiste, mai passiva; se è speranza, è soffusa di disperazione. […] Uno slancio. Un’aspirazione. L’esasperazione. Una tensione esasperata di tutto l’essere, verso la libertà, o l’amore, tutto ciò cui tendiamo senza arrivare a definirlo, la giustizia o la verità. Forse Dio … (ivi, 131-132)

 

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