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Luciana Castellina in missione per gli “Amori comunisti”

Passioni, ideali, dittature e avventura. Dall’avvincente libro della scrittrice e personalità politica vi proponiamo un estratto sul poeta turco Nazim Hikmet e sulla bellissima Münevver

Luciana Castellina in missione per gli “Amori comunisti”
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21 Giugno 2018 - 18.40


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  1. “Amori comunisti” (Edizioni Nottetempo, 220 pagine, 16 euro) di Luciana Castellina è un libro appassionante, ma appassiona anche in un raggio di azione più vasto di quanto non possa pensare chi è legato esclusivamente alla militanza politica di una delle figure più aperte e intelligenti della sinistra italiana del dopoguerra. È un libro di sentimenti, idee, di amori contrastati dalle vicende storiche e dalle dittature. È anche un libro di avventure. Già, avventure dove ci voleva una bella dose di coraggio (e a volte di incoscienza) per sfidare regimi autoritari. La scrittrice e giornalista che fu tra i fondatori del Manifesto in “Amori comunisti” racconta del lato sentimentale del poeta turco e oppositore di più regimi Nazim Hikmet, del suo legame con la bellissima Münevver Andaç e delle donne che si innamoravano invariabilmente di lui. Luciana Castellina scrive di amore e politica, di Argyrò Polikronaki e Nikos Kokulis, in Grecia, di Sylvia e Robert Thompson, statunitensi e in una terra dove essere comunisti vuol dire mettere a repentaglio la vita privata, venire osteggiati, spiati. Su gentile concessione dell’editore pubblichiamo un brano su una missione della scrittrice e politica in Turchia. Non esente da rischi e sorprese.

 

Luciana Castellina

La Sezione Esteri del mio partito, il Pci, mi chiama per sentire se sono disposta a una missione un po’ delicata: rintracciare il Partito Comunista turco che si è perso nel paese nel corso dei durissimi dieci anni di dittatura del presidente Menderes. Un regime peggiore di quello del Partito Repubblicano, nonostante gli esordi apparentemente più liberali del Primo Ministro del partito detto “Democratico”. Non si sa più chi è in carcere, chi è fuori ma nascosto, chi è ancora vivo o nel frattempo è morto.
È il luglio del 1960, e in Italia sta per scoppiare la rivolta di Genova contro Tambroni. Lasciare l’Italia proprio in quei giorni mi dispiace, ma mi affascina anche l’idea di andare a scoprire che cos’è la ribellione studentesca che ha scosso la Turchia. Nei mesi precedenti, gli studenti di Istanbul e di Ankara sono scesi nelle strade dando vita a gigantesche manifestazioni di protesta contro il regime. Si è parlato di “rivolu- zione giovanile”, in realtà è stata solo un’esplosione di malcontento, nessuna rete organizzata, nessun progetto chiaro. I cortei sono stati attaccati brutalmente dalla polizia, fin quando non è intervenuto l’esercito, che non ha sparato sulla folla: ha mirato verso il cielo e ha tirato in aria. Perché i militari, da sempre legati ai repubblicani di Atatürk e nemici dell’usurpatore “democratico” Menderes, un piano invece ce l’avevano; e anche gli strumenti per realizzarlo. Hanno vinto con facilità, aspettavano solo un pretesto, gli studenti glielo hanno offerto. Il 27 maggio hanno arrestato tutti i ministri. (I più importanti, compreso lo stesso Menderes, verranno impiccati nel settembre dell’anno successivo.) “Le forze armate turche,” si legge nel loro comunicato, “hanno assunto l’amministrazione del paese. Libere elezioni si terranno al più presto per consegnare il paese a chi le vincerà”.
Quale regime si è dunque instaurato in Turchia? Di che cosa si tratta, di una vera svolta democratica, o dell’ennesimo colpo di Stato autoritario dei militari turchi? Quali margini ci sono per ridare almeno libertà al drappello di comunisti ancora nel paese e nelle sue carceri? È questo che io dovrei andare a verificare. Come unico bagaglio: un indirizzo, uno solo, quel- lo dell’avvocato Mehmet Ali Aybar.
Mentre mi sto preparando alla partenza, ricevo una telefonata di Joyce Lussu. È la vedova di Emilio, anti- fascista, negli anni trenta confinato a Lipari, l’isola da cui, assieme a uno dei fratelli Rosselli, sua moglie l’ha fatto fuggire.
Joyce è una vecchia signora quasi mitica per le sue battaglie, e un po’ anche per le sue stravaganze.
Accolgo con piacere, e con un po’ di curiosità, la sua richiesta di incontro e vado a trovarla.
Joyce mi dice che in via riservata ha saputo della mia missione in Turchia e che ha un incarico da affidarmi. “Sai chi è Nâzım Hikmet, naturalmente,” mi chiede, come premessa. Naturalmente io lo so: è un grande poeta turco e comunista, che è stato a lungo in prigione e adesso vive esiliato in Unione Sovietica dove è fuggito dieci anni fa. Non so invece niente della sua storia sentimentale, mentre è proprio di Münevver Andaç che Joyce mi vuole parlare. Mi racconta dell’amore con Nâzım, dell’incontro in carcere, della liberazione e dell’immediata, forzata separazione; e poi, che da un decennio Münevver aspetta di rivederlo con un’ansia particolare adesso che, caduto Menderes, sarà forse possibile per lei uscire finalmente dal paese.
Mi commuovo e lei aggiunge altri dettagli romantici che quasi mi fanno piangere. Vuole che la incontri a Istanbul e mi affida un pacchetto: dentro due camicette dipinte a mano, un paio di scarpine dorate, un libro per il figlio Mehmet.
Lungo il viaggio mi fermo ad Atene per ottenere dai compagni greci maggiori particolari che rendano meno ardua la mia missione alla ricerca dei comuni- sti turchi superstiti. Ad Afrodite, come si chiama una delle mie interlocutrici, giornalista del quotidiano di sinistra Avghì, parlo di Münevver con emozione.
Inaspettatamente ho un riscontro imbarazzato, freddo. Dopo qualche insistenza, me ne spiega la ragione: Nâzım, approdato a Mosca nel 1950 – dice – è stato molto malato, non ha mai potuto riprendere i contatti con Münevver… “Insomma,” aggiunge in fretta quasi per tagliar corto e liquidare quella spiacevole informazione, “ora si è sposato con una giovane sovietica”.

 

 

 

 

 

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