“In India oggi le persone vengono fatte diventare dei micro-fascisti in così tanti modi”. L’osservazione forse riguarda in qualche misura anche l’Occidente? Viene da Arundhati Roy: lei è l’autrice del romanzo “Il dio delle piccole cose” (Guanda) e, ultimo uscito nel 2017, “Il ministero della suprema felicità” (Guanda). In un servizio del Guardian firmato Tim Lewis, nella parte in cui risponde ad autori e lettori vari, la scrittrice rispnde a questa domanda dell’autrice Lionel Shriver: “Non la preoccupa che il suo impegno da attivista la sottrae, o almeno distrae, dal suo lavoro di narratrice? E le interessa sapere che occupandosi di politica modifica il modo in cui lettori e critici rispondono alla sua narrativa?”
Ecco la risposta in un servizio molto ampio:
“Ho sempre litigato con la parola attivista. Credo sia una parola davvero nuovo e non so quando è nata, ma è recente. Non voglio una seconda professione oltre a scrivere. Lo scrivere la comprende. Ai vecchi tempi, gli scrittori erano anche creature politiche, non tutti ma molti. Veniva vissto come affar nostro lo scrivere sul mondo intorno a noi in modi diversi. Così non mi sento minacciata né preoccupata da questo. Per me, sia la mia narrativa che la mia saggistica sono entrambi politiche. La narrativa è un universo, la saggistica è un tema.
Ciò che mi preoccupa è che gli scrittori siano così spaventati dall’essere politici. L’idea che gli scrittori vengano ridotti a creatori di un prodotto che è accettabile, che scivola giù per la gola, che i lettori amano e pertanto può essere un bestseller, è molto pericolosa. Oggi, per esempio in India, dove il majoritarianism (maggioritanismo) si sta radicando, e con majoritarianism non intendo semplicemente il governo, intendo gli individui che vengono trasformati in micro-fascisti in tanti modi. Sono le folle e vigilanti che linciano persone. Allora, più che mai, il punto dello scrittore è non essere popolare. Il punto dello scrittore è: “Vi denuncio anche se non sono nella maggioranza” “.