“Scrittori da palco” è un collettivo di scrittrici e scrittori fondato in Sardegna dallo scrittore Flavio Soriga nell’ambito del festival letterario “Sulla terra leggeri”. Come avvisa l’ufficio stampa, “riunisce scrittori professionisti e appassionati di letteratura” per creare, e leggere in pubblico, racconti inediti sull’isola oggi e, negli anni, ha allargato i propri giri d’orizzonte. È un “esperimento di letteratura da palcoscenico”. Gli autori hanno presentato la terza antologia di letture pubbliche “Racconti da palco 2½” a Milano, allo spazio NonostanteMarras dell’artista, designer e stilista algherese Antonio Marras. Il volume comprende racconti di Stefano Andreoli, Matteo B. Bianchi, Errico Buonanno, Nicola Muscas, Lele Pittoni, Luca Restivo, Flavio e Paola Soriga, illustrazioni e copertina di Riccardo Atzeni. Pubblichiamo, su concessione dell’ufficio stampa per conto dell’Associazione culturale di Sassari “Camera a Sud”, il racconto di Flavio Soriga “Maialetti e altre catastrofi”.
“Maialetti e altre catastrofi” di Flavio Soriga
C’è questo mio amico cagliaritano di origine controllata, cittadino assoluto, uno dei tanti cagliaritani cresciuti nella convinzione che oltre Assemini ci sia il mondo di The Walking Dead, che dopo l’ultima discoteca suburbana la campagna ti avvolga e uomini bassi ma forti, fieri e inclini alla lotta col coltello circondino la tua auto per cibarsi del tuo sangue cittadino o depredarti del Moncler e delle Timberland. C’è questo mio amico nato e cresciuto a Cagliari San Benedetto, convinto assertore della parità di tutte le etnie e dei diritti di tutti i popoli a vivere in pace nel rispetto reciproco, compresi gli ogliastrini e quelli di Giba, i barbaricini e le donne di Teulada, un ragazzo cresciuto a pane e Jazzino, frequentatore di liceo classico e amante dei buoni romanzi e dunque teoricamente disponibilissimo alla scoperta del diverso e all’avventura, ma concretamente poco avvezzo a privazioni che non siano un cappuccino con poca schiuma o delle lasagne carenti di besciamella; c’è questo mio amico che un giorno si è fatto convincere da suo cugino, fisicamente meglio piazzato di lui e comunque temprato, nel suo sviluppo fisico e psicologico, da alcuni anni d’infanzia trascorsi a Senis, comune situato nelle remote province del Medio Campidano interno, credo, o di una delle sessantaquattro Barbagie esistenti o di non so cosa ma comunque Senis, 365 abitanti e tanta vita notturna; c’è questo mio amico che un giorno si è fatto convincere da suo cugino, che voleva fare scena con una ragazza che gli piaceva e che è una grande appassionata di trekking ed escursioni; si è fatto convincere, il mio amico, affinché suo cugino potesse fare il galletto con questa tipa bona, escursionista, narrando le gesta della sua avventurosa escursione, si è fatto convincere a fare un’escursione, con suo cugino, a Monte di Punta di Casino.
E sono partiti, questi due cagliaritani avventurosi, questi due portatori cronici di Vans e Clark’s, sono partiti per l’agro sardo, per il salto, per le perigliose lande incontaminate e deserte della nostra amata isola incontaminata. E dunque sono partiti dal campo base, e dunque hanno camminato. E camminato. E camminato. Per tre ore. Centottanta minuti. E dopo tre ore di cammino, il mio amico ha incominciato ad avere le visioni. Continue, chiarissime, dolorose visioni. Il suo divano. Il suo letto. Il tavolino del Libarium. Le poltrone del Ritual. Le brioche furtivamente riempite di crema di quei geni della Speciale. Le zeppole di quell’artista di Pirani. Quelle benedette sante conchiglie della Piemontese. Gli spaghetti alla bottarga di Lillicu. Le pizzette di una nota pizzeria al taglio cittadina, persino, un cibo su cui il mio amico si era talvolta esercitato in una certa ostentazione di scetticismo o ironia:
«Chissà l’olio che ci mettono», aveva detto qualche volta per seguire l’andazzo generale, «Chissà i grassi».
Ma adesso no, adesso l’ironia era andata, sparita, adesso, aggrappato alla spalla del cugino, privo di fiato, con i piedi gonfi come prosciutti e le caviglie lacerate da rovi e arbusti, solo e perduto nell’altipiano della malasorte, mentre seguiva un indigeno di trent’anni con l’aria da ergastolano sessantenne e possibile sequestratore che si spacciava per guida turistica specializzata in escursioni per medio esperti – e una cosa era sempre più certa: il mio amico NON ERA medio esperto, e aveva fatto malissimo a fingere di esserlo, maledetto suo cugino e le sue vanterie di nativo di Senis e maledette le tette sode dell’escursionista e gli ormoni di suo cugino – adesso il mio amico avrebbe mangiato qualunque pizzetta, fritto, sfoglia; il braccio di suo cugino, avrebbe mangiato, prima di stramazzare al suolo distrutto da stanchezza e sonno.
Ma poi, incredibilmente, il mio amico, suo cugino e la guida arrivarono alla meta. Ovvero, nel rifugio di un pastore. Un pastore vero, piuttosto diverso, dunque, come subito si resero conto i nostri due eroi, dal nonno di Heidi, per dire, o da altri pastori resi famosi da fumetti, romanzi e cartoni animati. Questo era un pastore di montagna, e aveva un cane, e questo cane fu la prima sorpresa che i nostri eroi ricevettero: era un cane enorme, brutto come la morte e cattivo come la morte, e tendenzialmente portato a darla, la morte, e stava precisamente per azzannare alla gola il mio amico e suo cugino (la guida indigena si era smaterializzata non appena la bestia aveva cominciato la sua corsa selvaggia verso di loro), se il pastore non l’avesse richiamata con un urlo disumano, un secondo prima della tragedia.
«Eh», disse il pastore con un sorriso, «mi ero dimenticato di legare Fonnesu.»
Era, infatti, il cane assassino, appartenente alla razza sarda fonnesa, ed era stato dunque battezzato Fonnesu, ragione per cui il mio amico elaborò quel giorno la convinzione, che da allora alberga in lui inossidabile, che qualunque cosa si pensi dei nostri pastori di montagna, non si può considerare che brillino per fantasia. Dopodiché, salutata la guida indigena e conquistata la pinneta-rifugio, il pastore chiese ai miei amici se avevano bisogno di rinfrescarsi e riposarsi prima di cena, ricevendo come risposta la visione di due trentenni cagliaritani che si lasciano stramazzare di botto su due brandine da campo. Infine, per arrivare al cuore della storia, e alla sua morale, successe questo: che un’oretta o due più tardi il mio amico si svegliò affamato, e si rese conto che suo cugino non c’era, e quando uscì dalla pinneta-rifugio lo trovò nel ricovero dei maiali, che osservava le movenze del pastore che, parlando del tempo e del prezzo del latte e del Cagliari di Matteoli e di quanto fossero ladri i politici a Cagliari e a Roma, dava da mangiare alle bestie, e che a un certo punto disse, indicando un simpatico maialino che scorrazzava intorno alle sue gambe:
«Questo, va bene a tutti?»
E davanti alla evidente paralisi dei suoi ospiti e futuri commensali, ripeté:
«Oh, vi va bene se ci mangiamo questo, di maiale?»
E di nuovo paralisi e silenzio, e a quel punto l’apparizione, improvvisa e inattesa, di un coltellaccio che il pastore teneva chissà dove e via, preso in maialino, sgozzato, dissanguato, sventrato, messo a cuocere.
«Il fegato ce lo mangiamo subito», disse il pastore.
E di nuovo sorrise. E sorridendo, zuppo di sangue e con il coltellaccio sempre in mano, guardò i miei amici:
«Ebbè, una bella birra, meritata ce la siamo?»
«Io non bevo», disse il mio amico.
E il pastore scosse la testa, deluso, scosso, abbattuto.
«E non mangio carne», balbettò.
E il pastore, fissandolo negli occhi, dopo un sospiro, disse, con aria piuttosto compunta: «Ascolta, io i vegetariani li rispetto. Rispetto i gay, i cagliaritani, i tifosi del Milan e anche i vegetariani. Ma in questa pinneta, se si sgozza un maialino, dopo si mangia. Tutti, lo dobbiamo mangiare. È chiaro?»
E in quel momento il mio amico sentì Fonnesu che grugniva. Fonnesu che alitava forte. Fonnesu che tendeva tutti i muscoli del suo corpo. E se incontrate il mio amico, un giorno in un caffè di Cagliari, e se incontrate suo cugino, una sera in un locale di Cagliari, chiedetegli se l’hanno mangiato, alla fine, il maialino. Chiedeteglielo, se sono riusciti a superare le loro convinzioni. Chiedeteglielo.