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Jack Ritchie, il campione del finale a sorpresa

Marcos y Marcos pubblica i libri dell’autore di “È ricca, la sposo e l’ammazzo”. “Il grande giorno” raccoglie racconti spiazzanti tra il giallo, il nero e l’umorismo

Jack Ritchie, il campione del finale a sorpresa
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3 Marzo 2018 - 18.24


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Enzo Verrengia

Disincanto, sarcasmo e crudeltà elevati a lucidi parametri dell’esistenza. Il tutto a confluire in narrazioni rigorosamente prive della benché minima adesione emotiva, sterilizzate da ogni traccia empatica, negate alla pietas. Eppure con il risultato di un disegno rivelatore della natura umana degno delle saghe di Balzac e Thackeray. Questo è Jack Ritchie (1922-1983), maestro di short-stories dove il giallo e il nero si miscelano con il rosa e soprattutto con la variegatezza infernale dell’humour. Non a caso, dal flusso copioso della sua ispirazione attinse spesso, per affinità d’intendimenti, l’Alfred Hitchcock della serie televisiva. Ma l’opera che meglio ha mostrato al grande pubblico la vena di Ritchie è stato un film ormai di culto tratto dal suo racconto più noto, È ricca, la sposo e l’ammazzo, diretto nel 1975 da Elaine May e da lei interpretato con Walter Matthau, l’attore perfetto per dare un viso al protagonista tipico dello scrittore. Ovvero un individuo che non fa mistero del proprio egoismo, al quale sacrifica tutto il resto, aggiungendovi un’insopportabile supponenza verso il prossimo. Comunque irresistibile, perché sincero e specchio di ciò che, alla fin fine, alberga dentro ognuno.
Lo scrittore del Wisconsin sarebbe rimasto ignorato in Italia, o al massimo confinato nelle antologie di genere, se non fosse stato per una struttura editoriale autonoma e distante da acquisizioni, fusioni e accorpamenti che stanno rendendo sempre più esiguo il margine del libro in Italia, anziché potenziarlo, come sbandierato. La Marcos y Marcos, di Milano, è già “responsabile” della riscoperta di John Fante. Ora il corpus di Jack Ritchie viene centellinato attraverso volumetti che esprimono nella stessa forma una vena fulminea. Ecco quindi Il grande giorno (Marcos y Marcos, tr. di S. Ossola e C. Tarolo, pag. 240, Euro 18,00), nel quale si raccoglie una nuova galleria di personaggi dediti alla malversazione e nel contempo attraenti proprio per la loro spudorata ammissione di colpa.
Le storie di Ritchie sono scritte quasi sempre in prima persona. Il che non è singolare, se non per la straordinaria circostanza di scoprire, a volte, l’assassino nello stesso narratore. Il quale non esita a rappresentarsi con disinvoltura nei panni di chi ha tirato le fila ingannando tutti, compresi i lettori. Si prenda il killer professionista del primo racconto, Pistola in affitto. Il titolo originale riecheggia Greene: “The gun is for hire”, come dire “una pistola in vendita”. Qui si comincia senza convenevoli: «Come tutte le mie vittime, George Franklin era notevolmente sorpreso di vedermi seduto lì in una delle sue poltrone con una 45 automatica in mano». Segue una conversazione sarcastica e insieme elusiva sulle scaturigini di una professione, quella del sicario a pagamento, e sui possibili moventi di chi l’assolda. Per poi scoprire una verità che esplode nelle ultime righe ed è spiazzante. Ritchie è uno specialista del twist ending, il finale con la svolta a sorpresa.
In Bisogna tenere d’occhio Ben tutti gli indizi della vicenda puntano alla necessità di coprire un omicidio preterintenzionale commesso dal personaggio del titolo. Salvo accorgersi che il “colpevole” non ha le caratteristiche dello psicolabile che Ritchie ha descritto.
Le sue donne letterarie sono umbratili, cornificatrici o bisbetiche da eliminare. Invece, qui si ha a che fare con lo Sguardo malandrino di Fay, tutta cervello, dedizione e amore autentico… Non certo per il ricchissimo marito, però. Il suo problema infatti è godersi un legame non d’interesse con il protagonista narrante. Che sembrerebbe macchiarsi di omicidio. Oppure no?
Il protagonista di L’assenza di Emily viene ossessionato dalle telefonate della moglie, che tutto fa credere lui abbia assassinato per intascarne l’eredità. È un fantasma? O non piuttosto il tentativo di farlo impazzire da parte della cugine di lei, Millicent, cointeressata al patrimonio familiare? Due soluzioni troppo facili per il genio inventivo di Ritchie.
Con Bon appetit, capitano ci si trova inopinatamente sbalzati nell’Unione Sovietica della Guerra Fredda, con un’atmosfera che appare una sorta di parodia di Buio a mezzogiorno, di Arthur Koestler, o La confessione, di Artur London. Il classico apparatcik vittima di un’epurazione. Ma niente paura, siamo nel mondo paradossale di Ritchie. Il gerarca di Stato prigioniero e costretto a firmare una falsa confessione per poi suicidarsi non ha nessuna intenzione di cedere all’ingranaggio kafkiano che vorrebbe stritolarlo.
Con Fai lavorare le dita si torna al consueto imbroglio familiare, fatto di soldi, contenziosi e cacciatori di dote. Meno hard di Dovresti campare molti anni, dove sembra che un gangster infierisca su una spaurita ragazza decisa a uscire dal giro della prostituzione, quando il mondo degli onesti, cui lei agogna, è peggiore di quello del lupanare.
Benvenuti nella mia prigione rientra nel genere del thriller carcerario, quasi anticipando Out of Sight, di Elmore Leonard. Anche se Ritchie ha un tocco conclusivo impareggiabile. La chiave, come sempre, è l’avidità, che qui c’entra con la corruzione.
In Quando ti compri un bell’omicidio si è addirittura nel canone più ortodosso di Ritchie. Un killer di professione, una moglie apparentemente svampita, un terzo incomodo. Più o meno lo stesso clima di La morte, le tasse e tutto il resto.
Il grande giorno, da cui il titolo del libro, è invece una lirica sul baseball, il grande catalizzatore dell’immaginario collettivo americano, dal quale non fu immune neanche Fidel Castro. Senza escludere, naturalmente, il picco dell’ultima riga, sconcertante.
Il ritorno di Bridget e Avanti il prossimo sono due pieces sospese fra il soprannaturale più esilarante, alla Wodehouse, e l’intrigo da tenuta di campagna, alla Agatha Christie.
La chiusa, È sempre stagione, suggerisce dalle prime battute un siparietto rosa, per giunta in terza persona. Eppure anche in questo caso tutto si risolve nell’ingannevole, e ne sortisce una commedia sardonica di accalappiatrici matrimoniali.
Jack Ritchie sciorina una fiera della vanità sempre da brivido, e spesso all’insegna dell’imbarbarimento in agguato dietro la facciata civile. Più ancora, lo scrittore costruisce un antivangelo della sopraffazione americana, incarnando nei suoi eroi cattivelli o del tutto demoniaci il lato oscuro di una società basata sul profitto e sulla spietatezza assoluta come metodo di confronto, non escluso, anzi privilegiato, l’omicidio.

 

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