di Enzo Verrengia
Uno spirito si aggira da quasi due secoli fra le decorazioni delle festività che allietano la fine dell’anno vecchio e l’inizio di quello nuovo nell’occidente ancora vivibile ed appetibile malgrado una crisi senza ritorno: è quello di Ebenezer Scrooge, il protagonista del “Canto di Natale”, di Charles Dickens, lo scrittore campione di letteratura educativa. Sì, “L’uomo che inventò il Natale”, come recita il titolo del film di Dan Stevens, tratto dal romanzo di Les Standiford, che ricostruisce la vicenda personale dell’autore vittoriano per eccellenza sfociata nella sua novella di maggiore successo.
All’avarissimo titolare di una ditta finanziaria londinese, la sera della vigilia di Natale appare il fantasma del suo ex socio, Jacob Marley. Anzi, gli si preannuncia modellando nelle fattezze del proprio volto il battente del portone dell’abitazione di Scrooge. Poi gli si presenta in spirito, trascinando una catena che simboleggia le pene da scontare nell’aldilà per il disprezzo con cui ha trattato i simili da vivo. In particolare, per la mancanza di carità verso i bisognosi. Non è tutto. Marley avverte Scrooge che a sua volta si sta preparando una catena ancora più lunga è terribile. Prima di congedarsi, lo spettro comunica il prossimo arrivo di tre analoghe creature d’oltretomba, ciascuna delle quali si fa portatrice dei tre capi del tempo, il passato, il presente e il futuro.
Scrooge ha già perduto la sicumera sdegnosa con cui la sera precedente trattava Bob Cratchit, il suo impiegato, e un signore venuto a chiedergli offerte per i poveri. Ma per il momento si tratta solo di terrore istintivo dinanzi al palesarsi della presenza spettrale di Marley. Dopodiché, con l’arrivo dei tre fantasmi introdotti dall’ex socio, il vecchio subisce una trasformazione analoga a quella dell’Innominato manzoniano. Decide di cambiare vita, corre per una Londra innevata e natalizia a dilapidare soldi in offerte, a comprare un tacchino gigante per la prolifica tribù dei Cratchit e finisce per celebrare la festa nel calore della famiglia di suo nipote. Di Scrooge, quando verrà la sua ora, si dirà che sapeva celebrare il Natale, a coronamento di una memoria tutta positiva, completamente cancellato lo sdegno precedente di cui era tacciato. Ah, nel frattempo ha anche aumentato la paga di Cratchit e contribuito ai costi delle cure per il piccolo Tim, figlio disabile dell’impiegato.
Un’orchestrazione narrativa dalla perfetta tenuta fiabesca e dal sicuro effetto commovente. Lo attestano le affermazioni di Robert Louis Stevenson: «Ho pianto come un bambino, ho fatto uno sforzo impossibile per smettere. Quanto è vero Dio, sono tanto belli, e mi sento così bene dopo averli letti. Voglio uscire a fare del bene a qualcuno». Eclatante, sulla bocca del genio che avrebbe sconvolto il mondo con “Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde”, dove si esplora nel profondo il dualismo dell’animo ed il fascino irresistibile della cattiveria assoluta.
Dietro lo scenario del “Canto di Natale” si apre uno sfondo complesso che negli ultimi decenni sta conoscendo un rinnovato interesse, se non proprio l’ennesima tendenza modaiola che sempre avvilisce gli elementi sui quali si appunta. L’Età Vittoriana è l’apoteosi dello splendore britannico. Il più lungo periodo di pace per un impero nato, vissuto e perpetuato dalla guerra. Dapprima con la Spagna, poi con la Francia, infine con la minacciosa potenza tedesca. In realtà, le truppe inglesi muovevano battaglia incessantemente anche in quegli anni, ma lontano dal suolo patrio. In India, in Russia, in Irlanda, in Sudamerica, dappertutto, purché non nei dintorni delle città nazionali, segnate dallo sviluppo tentacolare della rivoluzione industriale. Questa, però, trasformava l’esistenza dei sudditi di Sua Maestà in qualcosa che si consumava nell’universo concentrazionario delle fabbriche. Lo stesso Dickens fu costretto a soffrire per sei mesi in un opificio che produceva lucido per scarpe. Necessità inderogabile, visti i debiti contratti dal padre.
Viene da pensare che dalle sue manine ancora infantili provenisse la sostanza che faceva rilucere gli stivali dell’aristocrazia a passeggio per le strade londinesi. Tutte ricoperte da uno strato di letame di parecchi centimetri. Mortalità elevata, prostituzione, criminalità, ipocrisia: l’Età Vittoriana era un orrore incrostato di vernice sporca.
Allora perché prendersela con Scrooge?
Lui non fa che oliare con le sue transazioni il meccanismo imperialista del quale è succube. Lo sa bene e la cosa gli toglie ogni desiderio superfluo. Che senso ha festeggiare il Natale di una società che nasconde dietro l’opulenza un’incapacità di sviluppo sano, portatore di benefici condivisi, solidarietà e riscatto dalle tenebre dei secoli oscuri? Scrooge, poi, ha avuto la coerenza di non imporre la propria inestirpabile dedizione lavorativa ad una donna e ad una famiglia. Vive da solo, rifiuta anche di pasteggiare con il nipote. Di contro, Bob Cratchit, sottopagato e preso dalle tenaglie di una posizione che gli preclude ogni possibilità di carriera, seguita a sfornare figli, irresponsabilmente. In lui s’incarna la fatuità di una piccola borghesia ormai dimentica della rivoluzione francese e nel contempo incapace di prevedere i moti del ’48, che delegherà al proletariato autentico, aprendo la via al Grande Avversario del XX secolo, il comunismo.
Scrooge rifiuta di sprecare soldi per la carità perché ne intuisce il potenziale fiaccante e distruttivo. Il welfare inglese, che allignerà successivamente, sarà una malattia così grave da richiedere la classica cura d’impatto. La Signora di Ferro, Margaret Thatcher, si assumerà il ruolo ingrato di devastatrice sociale con le note misure estreme. Peccato che in pochi abbiano analizzato gli eccessi assistenziali di cui lo stato britannico si era fatto carico prima di lei, favorendo uno stuolo infinito di persone demotivate nella ricerca dell’occupazione data la disponibilità di contributi pubblici. Peraltro, malgrado i tagli della Thatcher, ancora oggi nel Regno Unito vigono disposizioni che permettono a molti di condurre un’esistenza quasi normale pur se privi di fonti lavorative di sostentamento.
Scrooge non accetta il parassitismo.
Inoltre, non si dimentichi che proprio quando l’inerzia governativa non controlla certe problematiche, le risposte più dure sorgono “dal basso”. Lo si vede oggi nella rivolte della classe media italiana, agonizzante per la crisi e preda delle inaccettabili recrudescenze neonazista che aizzano contro rom, islamici, profughi e diversi
Nel Regno Unito fu peggio. All’inizio degli anni ’70 il conservatore Enoch Powell ammonì con toni da Savonarola contro il rischio di un precipitare della nazione inglese nella deriva anarcoide. Le sue adirate prolusioni sconfinavano anche nel razzismo, perché la decolonizzazione attirava i “negri”. I quali, anziché venire integrati, furono confinati in ghetti come quello di Brixton, che sarebbero esplosi dieci anni dopo. Inevitabile pensare a una ricaduta di questo retaggio nella vittoria del separatismo dall’Europa e la conseguenza della Brexit.
L’avarizia di Scrooge potrebbe invece richiedere un’altra interpretazione. Quella del rigore, dell’etica inflessibile di un utilitarismo economico che non è accumulazione coattiva, egoista e sibaritica. Scrooge non dilapida i guadagni in abiti di sartoria, carrozze, cibi prelibati e donnine allegre, che costituivano il passatempo preferito degli squali della City. Lui mangia poco e vive spartanamente. Risparmia sul riscaldamento e in questo sembra addirittura profetico se si pensa alla crescente riduzione delle risorse energetiche.
Allora, la catena di Jacob Marley e quella che gli si sta preparando cambia di significato. Forse non è fatta di peccati monetari, bensì di eccessiva prudenza amministrativa. Quanto a Dickens, avrebbe dovuto guardarsi dai suoi peccati personali. Una moglie, Catherine Hogarth, trascurata e ripudiata per amoreggiare con la cognatina più giovane, Mary, dieci figli bistrattati e tanta, troppa vanagloria nel leggere agli amici in anteprima le puntate dei suoi romanzi per riceverne gli applausi dalle poltroncine di un teatro privato che si può ammirare nella casa-museo di Doughty Street, a Londra. Quindi, forse, Dickens puniva in Scrooge il contrario di se stesso, dedito alla doppiezza camuffata da perbenismo dell’Età Vittoriana. Almeno quel vecchio avaro non cercava né il plauso, né il calore conviviale, né le lusinghe sessuali. Peccato che la sua tempra abbia ceduto ai moniti degli spettri.
Scrive Bill Vande Water, un grande esperto di thriller: «Si suppone che Natale sia il momento della pace, della gioia e dell’amore, quando perfino i concorrenti in affari si stringono la mano, ladruncoli improvvisamente pentiti gettano banconote da dieci dollari tre le offerte per l’Esercito della Salvezza, le famiglie si riuniscono, le vecchie amicizie si riaccendono, e i bambini si comportano come angioletti. Perché guastare scene così calde, nostalgiche, toccanti, con un furto o addirittura con un omicidio? I cinici risponderanno con una sola parola: denaro».