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La lettura che resuscita ne "La custode dei bambini morti"

Nel romanzo di esordio di Maria Ielo siamo vivi o fantasmi di noi stessi?

La lettura che resuscita ne "La custode dei bambini morti"
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12 Novembre 2017 - 23.55


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di Delia Vaccarello

Leggi, leggi e ancora leggi, e così facendo persino una bambina morta diventa più sensibile. “Si accorse che, immergendosi nelle storie che leggeva, attenuava la nostalgia per un’esistenza reale, tangibile, che le era stata sottratta bruscamente…….”. E’ anche un riconoscimento del potere vivificante della lettura il primo romanzo di Maria Ielo pubblicato da Goware nella collana Pesci rossi. Il tema del fantasma tra i vivi non è privo di echi che riguardano l’odierna condizione umana. Oggi che siamo stretti tra una ignoranza preoccupante, riportata anche da docenti universitari come male delle giovani generazioni, e un’avidità che trasforma i cittadini in squali capaci solo di accaparrare status, denari, cose morte e con lo stesso passo “amori”, abbiamo bisogno di una sonora svegliata. A darla ci riusciranno i libri? Ne “La custode dei bambini morti” c’è una bimba, Beatrice – il nome della musa dantesca -, alla quale tocca in sorte di poter tornare da morta in mezzo ai vivi. Non capita a tutti, dice l’autrice. Condanna o privilegio?

A narrare di Beatrice è il padre, diventato un ubriacone per il dolore di averla persa tredicenne in un incidente stradale. La bottiglia diventa fedele compagna anche della madre, Federica, che però premuore al genitore di sesso maschile. La cornice è quella della campagna umbra, lo scenario, oltre che orlato dai monti e invitante alla spiritualità, è abitato da pregiati vini e piatti succulenti che la mamma della bimba cucina con vera passione all’epoca breve del paradiso terrestre, prima di essere inghiottita dal dolore.
La bambina “fantasma” rimasta orfana ha una custode, quasi un doppio nel mondo dei vivi. Alla custode il padre ubriacone lascia la dimora e lei sceglie tra tutte le stanze quella della piccola Beatrice, della quale veste anche i panni. Immersa nei paesaggi della tenuta che non a caso si chiama “I cipressi” diventa preda di un amore impossibile innamorandosi dell’uomo che per tutta la vita adorerà la mamma della bimba. La tensione verso i legami, nel libro, è tanto forte quanto i rapporti appaiono impossibili, legami nutriti attraverso immaginarie acrobazie, segnali con pallide chance di essere colti. Impossibile l’amore della figlia morta per la madre disperata e in vita, impossibile la passione di Beatrice per il giovane e vivo Sebastiano, fugace e legato ai colori di un paradiso perduto il legame che ha unito non i genitori di Beatrice, ma la madre a una donna prima del tragico incidente. Impossibile l’amore tra l’eterno spasimante, Fabrizio, e Federica. Di conseguenza gli sporadici contatti sessuali avvengono per disperazione o – nel caso dell’unico temporaneo idillio – patiscono un eccesso di incanto. Non stupisce. Questo esordio sia nel nome della piccola protagonista che nella poetica si lega a una sorta di moderno stilnovo: c’è la tendenza alla sublimazione, così l’invito a coltivare le virtù in questo caso della lettura. Gli amori – tanti – sono senza spiegazioni, incisi su una lavagna eterna, riottosi a ogni scavo. Assoluti. Del sentimento di Fabrizio per Federica leggiamo: “Il suo amore non aveva vacillato un solo istante. Aveva provato rabbia, dispiacere, gelosia, ma non aveva mai smesso di amarla. Non era ottusa e servile devozione. Era amore e basta”.
Al pari degli amori impossibili, si moltiplicano gli ospiti dei Cipressi. La tenuta diventa ben presto luogo di ritrovo di altri rari “morti a metà”, destino riservato solo ai bambini. A nutrirli la custode che riempie i piatti con alcune varianti su un tema solo: il desiderio (cioè l’ispirazione?). Se l’amore reale è impossibile, per la fantasia molto diventa a portata di mano.
Prima prova nella misura del romanzo che risulta coinvolgente, laddove Maria Ielo si era già sperimentata con penna felice in racconti e trame per l’infanzia. Qui al gusto per le atmosfere gotiche si unisce un rebus da decifrare. Nel solco della italica narrativa tra aldilà e aldiqua (il riferimento a Dante è esplicito, con Beatrice che ha il doppio statuto di musa/guida e di alter ego della custode se non della scrittrice), leggendo la commedia umana di Ielo, non priva di ironia e dell’invito ad appagarci delle virtù dei libri, ci chiediamo che senso abbiano il risveglio e la tensione verso il mondo dei vivi. Sono speranza o consolazione? Ce la possiamo fare a “toccare” i vivi o siamo destinati al massimo a godere del privilegio di essere mezzi morti?

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