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Perché leggere Piliph K. Dick è così necessario (Blade Runner a parte)

Gli infiniti piani di realtà che si incrociano nell'opera dello scrittore americano, fuoriclasse della fantascienza, visionario tra i ciarlatani.

Perché leggere Piliph K. Dick è così necessario (Blade Runner a parte)
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11 Ottobre 2017 - 10.34


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di Enzo Verrengia

Il 2049 del sequel di Blade Runner dista nel tempo più del 2019 in cui si svolgeva il film di Ridley Scott del 1982. Ma Philip K. Dick campeggia con il suo talento mai smorzato dalle voghe culturali, neanche quelle così effimenre degli ultimi decenni.
Un visionario fra i ciarlatani. Così Philip K. Dick era definito da un altro grande fuoriclasse della fantascienza, Stanislaw Lem. La valutazione appariva sulle pagine di Microworlds, un libro di saggi dove il polacco si scagliava a più riprese contro la fantascienza americana, praticata, a suo dire, da ciarlatani, appunto. Cioè scrittori incapaci di costruire ipotesi ancorate alle fondamenta dello scibile e animati da un infantilismo pernicioso e sterile. A inventivarli, editori privi di scrupoli che non esitano ad apporre sulle copertine multicolori dei tascabili richiami ormai triti, del tipo: «Il più grande romanzo di fantascienza mai pubblicato». Ciarlatani, insomma.
Laddove Dick si distingue dall’inizio per un approccio del tutto personale al genere narrativo futuribile e tecnologico. La sua foga di esplorare l’ignoto che attende appena fuori dalle fragili certezze della normalità è tale da sospingerlo verso la prosa senza alcuna opera di elisione ed elusione. Se per molti la scrittura viene dopo un accanimento autocensorio che lascia fuori dal testo ogni superfluo, fino alla liofilizzazione della trama e dello stile, per Dick esiste l’urgenza opposta, di riversare tutto e subito nei racconti e nei romanzi.
Così, all’inizio, lui non si colloca deliberatamente nell’ambito fantascientifico. Anzi, vuole scrivere romanzi mainstream, termine che fra gli appassionati designa la narrativa non di genere. Salvo scoprire che proprio fuori dagli steccati fantascientifici si trovano restrizioni alla libertà di un autore. Lo dimostra Confessioni di uno scrittore di merda, il cui protagonista, un mentecatto, raccoglie materiali sugli UFO, Atlantide e simili. Peraltro, si chiama J. F. Sebastian, e tornerà, probabilmente solo di nome, in un ruolo secondario di Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, il romanzo da cui deriva Blade Runner.
Dick non scrive con intenti terapeutici, bensì per dare fondo alla propria visionarietà. Il mondo costituisce per lui l’enigma dell’inconoscibile. La nostra percezione, o meglio, l’appercezione, la coscienza dell’io, esiste davvero o risulta da manipolazioni della psiche decise dai poteri occulti. L’America nella quale matura come uomo e come scrittore è percorsa dagli spettri della Guerra Fredda. L’FBI spia gli artisti considerati vicini alla sinistra, dunque potenziali membri di una quinta colonna nel caso della temuta invasione rossa. Oppure il pericolo incombe dallo spazio profondo. Gli alieni giungeranno a bordo di dischi volanti o razzi interplanetari per prendere possesso delle menti e dei corpi di inconsapevoli americani medi.
È esemplare Cronache del dopobomba. «Be’, ho sbagliato la profezia…» afferma Dick nella postfazione. Ma non ha certo mancato di catturare ed esprimere i suoni, i colori e le dissociazioni di una società allo sbando di per sé, in cui l’apocalisse è permanente. Per rappresentarla, con una tecnica che gli è peculiare, Dick insegue di continuo il punto di vista di tutti i suoi personaggi. Così il dottor Bluthgeld, che oscuramente è responsabile delle ricerche nucleari culminate nella guerra tra cinesi e americani, osserva le rovine di una civiltà di cui si sente il distruttore proprio nel giorno in cui aveva deciso di andare in terapia dallo psichiatra Stockstill. A suggerirglielo era stata Bonny Keller, collega scienziata e, per contro, ninfomane, capace di restare incinta proprio in quelle stesse fatidiche ore in cui cadono le bombe. Partorirà la mutante Edie, che nel grembo reca a sua volta un fratellino, Bill, mai nato e nel contempo vivo come puro spirito.
Sembra improbabile che questa umanità dai tratti di un’incarnazione collettiva della teoria del caos possa essere osservata all’inizio del romanzo dal povero Stuart McConchie, commesso negro di un negozio di vendita e riparazioni di apparecchi televisivi. Il quale non ha imparato nulla dalla discriminazione di cui è oggetto, perché guarda con scoperto razzismo un focomelico, Hoppy Harrington, che compensa l’handicap con una mente geniale da inventore.
Su tutti troneggia dallo spazio Walter Dangerfield, che doveva essere il primo uomo a raggiungere Marte, invece rimane bloccato per sempre in orbita attorno alla Terra e, dopo la catastrofe, trasmette nastri musicali e informazioni utili, con un piglio che ricorda Lone Wolf, il disk-jockey di American Graffiti.
Sparsi in campo questi concentrati di angoscia che sono sempre i protagonisti di Dick, a lui non rimane che seguirli passo passo in un minimalismo dell’incubo postnucleare che anticipa –il romanzo è del ‘64– quella di The Day After. In altre parole, qui non c’è il percorso quasi obbligatorio di ogni tipica storia del dopobomba: lo sforzo per la ricostruzione. Impossibile in un mondo già di per sé frammentato, dissociato. Le nevrosi di questi americani della zona di San Francisco prima dell’Emergenza non fanno che trapassare nel dopo. L”inquietudine e i complessi di colpa di Bluthgeld l’avevano già messo alla mercé della psicanalisi senza il bisogno di dover poi sfuggire all’ira dei superstiti che lo ritengono colpevole degli orrori presenti.
Cronache del dopobomba è la testimonianza di una resa alla ragione del modello di sviluppo occidentale. Che produce un mutante non da radiazioni bensì da deviazioni, quello che i King Crimson avevano ben definito nel mitico brano Twenty First Century Schizoid Man, uomo schizoide del XXI secolo.
In I simulacri confluiscono alcuni temi ricorrenti nella narrativa di Dick: il rapporto spesso indecifrabile tra realtà e finzione, la vita artificiale, un mondo nuovo dalle infinite incognite sociali e antropologiche. Nel futuro de I simulacri, ambientato nella prima metà del XXI secolo, gli Stati Uniti si sono fusi con la Germania Occidentale in un’unica federazione. Predomina la tecnologia e il denaro tedesco, che insieme consentono la realizzazione degli automi che dànno il titolo al romanzo. I simulacri riproducono la vita umana in maniera tanto perfetta da non lasciar trapelare agli occhi della gente che uno di essi è diventato Presidente, Rudolf Kalbfleisch. Ma artificiale, seppure in modo diverso, è anche la first lady, Nicole Thibodeaux. Si tratta di un’attrice, Kate Rupert, assoldata per interpretare quel ruolo. Dietro questa pantomima c’è un governo occulto, che controlla tutto, compreso il tempo, grazie alla macchina di von Lessinger. Solo una fascia di funzionari ad alto livello sono al corrente di tutto ciò, il resto dell’umanità è fatta di meri esecutori di ordini. Un’altra versione del Mondo nuovo di Huxley, con la suddivisione in Alfa e Beta.
Inutile però cercare una trama dal cumularsi di questi dati. Dick si limita e scorrere capitolo dopo capitolo attraverso la vita privata di vari personaggi, coinvolti senza saperlo nelle macchinazioni che fanno capo ai simulacri. Non gli interessa snocciolare un meccanismo narrativo ad orologeria, quanto proporre a raffica ipotesi su un futuro angosciante, che ha il sapore di una parabola. Più che un domani coerente in ogni sua parte, lo scrittore vuole offrire la sua visione del presente, deformato dalle sue idee e dalle sue ossessioni. Lo precisa Vittorio Curtoni, a sua volta grande nome della fantascienza italiana, che dell’autore americano è anche traduttore: «Avere scelto di scrivere di fantascienza significava per Dick la possibilità di creare metafore saldamente ancorate nella realtà, non la fuga dalla palpabile quotidianità della vita.»
Lungo questo asse speculativo e filosofico, prima ancora che letterario, si incontra il racconto più emblematico del corpus dickiano. Prevenire è meglio che punire? Certo. A patto di cogliere nel giusto. Ma anche così, vanno perdute le dinamiche non sempre riducibili a monte del delitto, in poche parole il movente. Non che questo importi, se la società ne beneficia in sicurezza diffusa.
Ecco il meccanismo elementare di regolamentazione nel scorcio futuro descritto da Philip K. Dick in Rapporto di minoranza. All’indomani dell’11 settembre, sembrerebbe quasi auspicabile l’ipotesi della novella, che, al contrario, nell’immaginario non ancora turbato dalla distruzione delle Twin Towers, appariva claustrofobica, oppressiva, paranoide. Invece queste erano le intenzioni di Dick, nel denunciare i rischi di una democrazia iperprotettiva di se stessa, che adotta procedure di controllo così estreme da invadere perfino lo spazio dell’interiorità, materializzando gli incubi di Orwell in 1984.
John Allison Anderton è un commissario di polizia, ideatore del sistema Precrimine. Questo si basa sulle visioni di tre sensitivi, capaci di intuire anzitempo i propositi omicidi dei cittadini. A quel punto scatta l’arresto preventivo, cui segue la reclusione in un apposito campo di concentramento.
Sennonché, un giorno, sulle schede emesse al quartier generale del corpo Precrimine, Anderton legge il suo stesso nome. Gli si imputa di voler uccidere Leopold Kaplan. Da segugio in preda, la metamorfosi è più rapida di quanto non possa credere l’attonito protagonista.
A Dick interessa poco lo svolgimento della caccia. Gli preme piuttosto sciorinare le implicazioni morali di un sistema che vorrebbe garantirsi da ogni rischio distruggendo il libero arbitrio. La vicenda di Anderton, infatti, si dipana alla superficie di un complotto militare non dissimile da quello che in Sette giorni a maggio vorrebbe instaurare una tirannia marziale negli Stati Uniti.
È dunque inutile pretendere che tutto torni come nel più classico degli schemi da suspense. Non che vi siano smagliature in Rapporto di minoranza, tuttavia Dick calca la mano sulla frantumazione degli schemi sui quali Anderton fondava la sua esistenza di ligio funzionario dell’ordine pubblico. La moglie Lisa potrebbe avere intenzione di lasciarlo per il più giovane ed aitante Witver; emissario del Senato, che punta ad assumere la dirigenza della Precrimine. Lo stesso Kaplan, che guida una congrega di ex militari dal piglio e dai metodi di agenti della CIA. L’unica speranza sarebbe l’emigrazione su un altro pianeta.
Rapporto di minoranza riesce addirittura a dimostrare che la matematica può essere un opinione, se non nei risultati, nelle implicazioni. A partire dalle previsioni dei tre sensitivi, la polizia ha infatti la possibilità del confronto. Si possono creare delle discrepanze nell’anticipazione di un crimine. Proprio ciò che si nasconde dietro la vicenda personale di Anderton. Uno dei tre sensitivi lo decreta innocente. Ed ecco lo scioglimento logico della trama: la previsione del delitto, scoperta dal candidato colpevole, può avviare una catena di eventi che vanificano l’azione progettata. Perché il tempo non scorre univoco quale ci appare, ma scorre su infiniti possibili sentieri. Lo si scoprirà nel libro più noto di Dick, La svastica sul sole, divenuto una serie di culto prodotta da Amazon e ormai alla terza stagione. Qui la Germania e il Giappone hanno vinto la seconda guerra mondiale, creando un presente alternativo. Solo che uno dei protagonisti, lo scrittore Hawthorne Abendsen firma un romanzo nel quale si sostiene sia accaduto il contrario. Due o infiniti piani di realtà s’incrociano nella vicenda, e nell’intera narrativa di Dick.

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