di Stefano Pignataro
Come accostare due figure così emblematiche, celebri e fondamentali della nostra letteratura come quelle di Italo Calvino e Pier Paolo Pasolini? I due autori del nostro prezioso quanto ignobilmente ignorato Novecento (soprattutto dai programmi scolastici ma forse dai docenti stessi) sono tra gli scrittori ed intellettuali più amati e letti dai giovani. I due autori, di cui del primo è ricorso giorni fa il trentaduesimo anniversario dalla morte e del secondo fra un paio di mesi il quarantaduesimo, a prima vista sono due scrittori completamente diversi se non opposti.
Eppure i due intellettuali quasi coetanei (classe 1923 Calvino, classe 1922 Pasolini), nascondono interessanti analogie e proprio queste analogie vorremmo analizzare partendo da un lavoro fondamentale di comparazione quale è Pasolini contro Calvino-Per una Letteratura impura (Bollati-Boringheri, 1998) di Carla Benedetti.
Uno dei primi punti in comune che l’occhio attento del critico o del lettore riscontra nel vasto corpo d’opera di Italo Calvino e Pier Paolo Pasolini sono alcune tematiche ed alcuni interessi comuni dei due intellettuali per un determinato periodo storico: Il dopoguerra. Si tratta di un periodo che per i due scrittori quasi coetanei (classe 1922 Pier Paolo Pasolini, classe 1923 Italo Calvino) è di fondamentale importanza per una ricca varietà di motivazioni. La letteratura del dopoguerra, in Italia, periodo che un valido critico come Alberto Asor Rosa fa partire da un articolo di Elio Vittorini intitolato “Una nuova cultura”, articolo che apre il Politecnico ( “Non più una cultura che consoli dalle sofferenze, ma una cultura che protegga dalle sofferenze, che le combatta e le elimini”, è costituita da una folta schiera di intellettuali che oltre alla forma ed all’ideologia mette una nuova parola, la parola “impegno”) in un breve periodo di tempo si arricchisce di scrittori, di poeti, di intellettuali che condividono insieme, seppur in maniera differente, la comune idea dell’antifascismo e delle libertà. Il filo comune ideologico di questi importanti scrittori, in primo piano Italo Calvino, è il carico di speranze, di illusioni, di riscoperta di quei valori dopo una guerra perduta, ma che sembra vinta: la lotta per la libertà, contro la dittatura nazifascista-In quest’atmosfera molti intellettuali lavorano intensamente e prolificamente: Italo Calvino e Pier Paolo Pasolini si muovono sul tema del dopoguerra su binari paralleli, ma allo stesso tempo differenti: entrambi sono autori molti giovani, se consideriamo che lo scrittore di Santiago scrive il romanzo Il sentiero dei nidi di ragno, che lo “consegna” agli scrittori della Resistenza, a ventiquattro anni, nel 1947, mentre Pasolini pubblica la raccolta poetica le ceneri di Gramsci, (opera che lo consacra come poeta, la prima in versi di aperta polemica e rottura con l’ideologia di regime, nel 1957, a trentacinque anni.
Confrontando i primi lavori di Calvino e Pasolini, Il sentiero dei nidi di ragno e Ragazzi di vita, scritti più o meno in quegli anni di ricostruzione bellica e di fermento politico e culturale, si evidenzia una prima differenza ed una prima analogia: sono romanzi in cui c’è un protagonista ed allo stesso tempo un protagonista corale. Nel Sentiero di Calvino il protagonista è Pin, ma con Pin la vicenda viene narrata attraverso gli occhi comuni e complici di tutti i compagni partigiani e che diventano loro stessi protagonista; in Ragazzi di vita riscontriamo questa analogia della coralità di protagonisti; 5 ragazzini delle borgate romane che vagano e “sciamano” nella Roma desolata, periferica e violenta in una “caldissima giornata di luglio”.
Un punto credo fondamentale che unisca i due scrittori perennemente “così lontani , così vicini” è il tema dell’innocenza. Le loro vittime sono sempre personaggi a cui manca una precisa identità; le vittime dei personaggi di Pasolini hanno una dolcezza che impietrisce, mentre quella dei personaggi di Calvino intenerisce. I personaggi di Pasolini, che molto spesso sono “vittime”, quasi sempre intrecciano anche un rapporto o un dialogo con i loro carnefici; ciò che suscita inquietudine e stupore e il loro dibattersi tra sofferenza, accettazione, rifiuto e rassegnazione. Per Calvino l’innocenza è un mezzo di salvezza, trovandosi in un mondo pervaso da mutamenti, sconvolgimenti esistenziali ed onirici. Per Pasolini l’innocenza è una macchia, è una condanna, una “colpa”.
Queste due opposte concezioni di “innocenza” nelle opere di Italo Calvino e Pier Paolo Pasolini si ritrovano in molti dei loro personaggi: in Calvino, oltre il “bambino-soldato” Pin, è un esempio di pura innocenza il manovale Marcovaldo, pura rappresentazione delle conseguenze del capitalismo industriale, del boom economico e dell’alienazione. L’ “innocente” Marcovaldo è un uomo in cerca di tutte le autenticità, le cose semplici, appunto “innocenti”, proprio perché convinto che proprio questa “innocenza” della pura realtà quotidiana sia l’unica soluzione possibile contro l’alienazione da terzo millennio ed un unico punto di riferimento certo e non mutevole.
L’industrializzazione non controllata schiaccia quel mondo puro ed innocente: lo riduce suo seguace, sua copia sbiadita; di qui il senso del comico in Marcovaldo: egli vorrebbe ritornare a quello stato originario che non è più e dunque l’effetto è il risultare ridicolo.
“(…)«Oh, potessi destarmi una volta al cinguettare degli uccelli e non al suono della sveglia e allo strillo del neonato Paolino e all’inveire di mia moglie Domitil–la!» oppure: «Oh, potessi dormire qui, solo in mezzo a questo fresco verde e non nella mia stanza bassa e calda; qui nel silenzio, non nel russare e parlare nel sonno di tutta la famiglia e correre di tram giù nella strada; qui nel buio naturale della notte, non in quello artificiale delle persiane chiuse, zebrato dal riverbero dei fanali; oh, potessi vedere foglie e ciclo aprendo gli occhi! » Con questi pensieri tutti i giorni Marcovaldo incominciava le sue otto ore giornaliere – più gli straordinari – di manovale non qualificato. (Italo Calvino , Estate. La villeggiatura in panchina in Marcovaldo, ovvero le stagioni in città. Einaudi, 1963).
L’innocenza e la purezza di Marcovaldo si è perduta anche nei ritmi irrefrenabili e continui della fabbrica dove lavora, la “Svamp”, una fabbrica anonima, un ‘entità non specificata, del resto, come il suo protagonista. La fabbrica prende dell’uomo moderno tutto il suo tempo migliore, si impossessa di lui, e non fa altro che alienarlo. Anni più tardi, sarà Elio Petri nel suo film La classe operaia va in Paradiso del 1971, a rappresentare l’operaio medio, alienato (interpretato da uno straordinario Gian Maria Volontè) che cerca di spezzare la prigionia della fabbrica in cerca di un “Paradiso” perduto. Marcovaldo-Ludovico Massa (l’operario interpretato da Volotè), è il binomio calzante dell’uomo-medio che fallisce il suo tentativo di voler riuscire a tutti i costi ad inserirsi in questa nuova concezione umana. Scrive Calvino nell’ Album Calvino, curato nel 1995 da Luca Baranelli ed Ernesto Ferrero.
Sostanzialmente, ed ideologicamente diverso è il concetto di “innocenza” in Pasolini.
Per Pasolini l’innocenza è una colpa, una grandissima colpa, perché significa accettare biecamente tutte le perversioni che il nuovo tempo sta propinando alla nuova generazione; un generazione che dai padri sta passando ai figli ed i figli “pagano sempre le colpe dei padri”. (Pier Paolo Pasolini, I giovani infelici, Lettere luterane, Einaudi, 1976). La colpa dell’innocenza è irrimediabile e l’unica soluzione per espiare questa colpa è la morte.Si potrebbero ricercare, come è stato fatto per Italo Calvino, molti personaggi “innocenti” nell’opera letteraria e cinematografica di Pasolini; ci si limiterà a citarne alcuni. Trasuda innocenza e spensieratezza Ninetto (intepretato da Ninetto Davoli) de La sequenza del fiore di carta, episodio diretto da Pasolini del film “Amore e rabbia” (1969); Ninetto passeggia per le vie di Roma cantando e ballando per le strade, mentre per le vie della Capitale appaiono, come apparizioni ancora impresse nell’immaginario collettivo, le immagini di tutti gli orrori del periodo passato: stragi, genocidi di massa, deportazioni, guerra e bombardamenti… Ninetto non sembra avvedersene, anzi, pare sordo agli avvertimenti, agli ammonimenti che una voce dall’alto, che si potrebbe identificare come una voce di un “moderno spirito collettivo” (non certo la voce di Dio), sprona a prendersi le sue responsabilità e a scoprire una sua precisa identità. Ninetto non vuole né ci tiene a capire di “esistere” e quindi il suo fato è segnato: muore. Come muore sbranato anche il corvo di Uccellacci e uccellini, simboleggiante l’ideologia marxista in un mondo in cui la sua parola, le sue teorie, la sua “innocenza” non sono più ascoltate, anzi, sono spesso derise ed invise. Motivo per il quale i protagonisti del film, che non a caso di chiamano “Totò Innocenti” e “Ninetto Innocenti”, decidono di zittirlo mangiandoselo.
A differenza dei personaggi-vittima di Calvino, che posseggono comunque una propria identità e conservano sempre un proprio equilibrio storico e personale, le vittime di Pasolini sono sempre mute, inermi. Le vittime del crollo dell’ideologia borghese e del benessere capitalistico sono raffigurati egregiamente da Pasolini nella famiglia ordinata e benestante di Teorema, che si potrebbe paragonare, seppur con le dovute differenze, alla famiglia di Marcovaldo; questa famiglia milanese viene letteralmente scardinata dei suoi valori e dei suoi punti di riferimento da un “ospite” misterioso che viene a sconvolgere la loro vita. Egli finirà per portare tutti loro ad un totale disfacimento mentale e psicologico.
Calvino e Pasolini, in questi primi anni, hanno diversi punti in comune ed insieme denunciano, da scrittori impegnati e da raffinati polemisti, il falso benessere o “i dubbi” del benessere stesso.
Sono inermi le vittime di Salò o le 120 giornate di Sodoma, ultimo film di Pasolini, il suo testamento politico e sociale, in cui la dolcezza delle vittime impietrisce dato che sono esse stesse ad accettare passivamente la loro condizione con i loro carnefici. Infatti quattro signori, che rappresentano le varie Autorità del Regime Fascista, sfogano su di loro tutte le loro perversioni.
I due scrittori di certo non se le mandavano a dire se il loro pensiero era diverso in qualche scottante questione dell’Italia contemporanea. Celebre è , ad esempio, il litigio a distanza sulle colonne del primo giornale italiano che era il Corriere della Sera negli ultimi mesi del 1975. Pasolini, alle strette, chiaramente rimprovera allo scrittore del Barone rampante di non aver capito nulla dei suoi scritti e di non aver visto con attenzione nemmeno un suo film. Calvino rimproverava a Pasolini di rimpiangere l’Italietta contadina che, secondo lui, non aveva portato a nulla in Italia.
Cosa rimane, dunque, del rapporto tra Italo Calvino e Pier Paolo Pasolini? Molto poco. Lo si nota anche dalla predilizione che i pedagogisti, i genitori e gli insegnanti hanno per il primo tanto di darlo da leggere a cominciare dalle scuole elementari ed ignorando se non sconsigliando totalmente lo studio e la lettura del secondo.
Si tenga presente che forse, come senza la Rivoluzione americana non ci sarebbe stata la Rivoluzione francese (teoria tanto cara ad Emilio Gentile), forse senza questo rapporto difficile, scomodo ma necessario tra Pasolini e Calvino non ci saremmo tanto appassionati alle loro rispettive opere. Se la Rivoluzione francese e quella americana sono “sorelle”, di certo non si può dire lo stesso di Calvino e Pasolini. Ma di certo saranno sempre “così lontani e così vicini”.