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Sorrentino: "Napoli il set perfetto per descrivere luci, ombre e caos"

Il regista napoletano premio Oscar si racconta tra le strade della città partenopea.

Sorrentino: "Napoli il set perfetto per descrivere luci, ombre e caos"
In foto Paolo Sorrentino
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8 Gennaio 2024 - 16.43


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Questa è una delle esercitazioni svolte dalle studentesse e dagli studenti che stanno frequentando il laboratorio di giornalismo, tenuto dal Professore Maurizio Boldrini. Sono da considerarsi, per l’appunto, come esercitazioni e non come veri articoli.

di Serena Guardascione

Nonostante il freddo pungente della mattina, a Napoli si respira un’aria quasi primaverile. “Sarà sicuramente grazie al sole e al calore della gente”, commenta malinconico il mio interlocutore, il famoso regista premio Oscar, Paolo Sorrentino.

Sono le 11:15 quando il regista entra, con tutta la calma che lo contraddistingue, al famoso e storico bar, il “Gambrinus”, in via Chiaia. Da buoni napoletani ci siamo dati appuntamento per prendere un caffè.  Subito lo ringrazio per avermi concesso questo breve incontro, visto che è nel pieno delle riprese del suo nuovo film, nella vicina Capri. Mi fa notare che di napoletano “ho poco e niente”, “forse il viso o il sorriso, ma non di certo l’accento”. Decido di non dire che non bevo nemmeno il caffè, non vorrei deluderlo ancora.

La sua recente pellicola parlerà della vita di Partenope. “Dal 1950, quando nasce, fino a oggi. Dentro di lei, tutto il lunghissimo repertorio dell’esistenza: la spensieratezza e il suo svenimento, la bellezza classica e il suo cambiamento inesorabile, gli amori inutili e quelli impossibili, i flirt stantii e le vertigini dei colpi di fulmine, i baci nelle notti di Capri, i lampi di felicità e i dolori persistenti. I padri veri e quelli inventati, la fine delle cose, i nuovi inizi”. Con queste sue  parole Sorrentino mette in chiaro che il film non parlerà di miti o di sirene, ma di una donna, una figura umana che incarna l’essenza di Napoli, con i suoi pregi, vizi e difetti. La città è la vera protagonista e come sfondo ci sono le storie umane che la incorniciano.

Nel cast troviamo nomi illustri del nostro cinema, come Stefania Sandrelli, Isabella Ferrari, Luisa Ranieri, Silvio Orlando, ma anche grandi nomi del cinema internazionale come Gary Oldman. Gli chiedo com’è lavorare con tutti questi attori così diversi tra di loro, per la lingua, per le abitudini lavorative, che sono diverse da un set Hollywoodiano, rispetto ad un set italiano che è molto più “piccolo”. Mi risponde, con naturale semplicità dicendo  che “il cinema ha solo una lingua che segue le regole grammaticali dell’Arte”. Ed è vero se ripensiamo ai grandi esempi del passato in cui registi italiani hanno diretto attori stranieri in maniera magistrale. Come Bertolucci con de Niro in “Novecento” e Sergio Leone con Clint Eastwood nel genere “spaghetti western”. “Perché si instaura la fiducia che è una cosa importante che trascende dalle provenienze”, mi dice.

Fiducia che nasce anche dal rapporto e dal clima che si crea sul set. Ci continua a spiegare che i suoi tempi sul luogo cinematografico sono molto calmi e naturali. “Non cerco la spasmodica perfezione interpretativa, deve venire con naturalezza e se questo richiede tempo allora staremo lì, su quella scena tutto il tempo necessario… tanto non abbiamo nient’altro da fare” (sorride).

Continua il discorso raccontandomi la prima notte di riprese sul set della sua nuova opera, di lui che, assorto nei suoi pensieri, cammina in giro “bloccando la scena nella mente”, tutto questo dopo aver cenato con il cast nella bella Capri, mentre teneva un calice di vino in mano e nell’altra un sigaro. Ecco la calma “sorrentiniana”, che rispecchia un vecchio modo di fare cinema, ormai dimenticato e sostituito dalle grandi produzioni asettiche.

Gli faccio notare che ormai è il secondo film di fila che gira a Napoli (dopo “È stata la mano di Dio”, 2021) e lo stuzzico dicendogli che ha “tradito” la città trasferendosi altrove, più precisamente a Roma. “Sono state esigenze lavorative. Alla fine, tanti anni fa, il cinema era tutto lì”.

Mi racconta, però, che la Napoli degli anni ‘80 ad un certo punto era diventata troppo faticosa. “Dopo trentasette anni ero contento di andar via” confessa, sorridendomi con occhi soddisfatti. Ormai da quando vive nella capitale è tornato nella sua terra solo poche volte, spesso per eventi tristi, tipo i funerali. Ma dopo anni il richiamo di casa si fa sentire e gli è tornata la voglia di trascorrerc più tempo e lo sta facendo con la scusa dei suoi film, e chissà se ci ritornerà in maniera fissa.

Da fine giugno sta girando a Capri la nuova pellicola di cui non si sa molto. Cerco di indagare, ma non vuole dire nemmeno quale sarà il titolo definitivo dell’opera. È un progetto che si sta ancora evolvendo ed è avvolto da una sorta di mistero che fa crescere in noi, semplici spettatori, il desiderio e la curiosità di vederlo. Ci dice che forse lo fa proprio per questo, “chissà”.

Chiedo cosa dobbiamo aspettarci dal punto di vista umano-caratteriale visto che siamo abituati a vederlo affrontare ogni sfaccettatura umana, dal dolore alla lussuria. “I personaggi”, dice, “saranno uomini e donne osservati e amati. Saranno ripresi i loro momenti di malinconia e fallimento, si vedrà la loro impazienza e la loro disperazione. Tutto questo accompagnato dal passaggio del tempo e da Napoli, con il suo fascino e il suo incanto, le urla e le risate”. In pratica ci sta dicendo tutto e niente. Forse più niente penso. Sembra quasi un cubo di Rubik da risolvere. Talvolta semplice su qualche mossa, ma ogni volta che arrivi a pensare di star completando tutte le sequenze di colori ecco che spunta un rosso nella parte bianca che non ci doveva stare. Insomma, ogni volta che ti sembra di capire Sorrentino in realtà ti ritrovi ancora al punto di partenza. Gli dico il mio ragionamento e lui sorride. La domanda successiva mi arriva spontanea.

“Maestro, ma lei ride mai? Intendo proprio di gusto”. Penso di non riuscire a vederlo molto in questa veste, perché mi immagino una risata con dietro una perenne malinconia, forse perché si è sempre descritto un po’ schivo e silenzioso. Forse perché la morte prematura e improvvisa dei genitori, che lo hanno lasciato solo al mondo a sedici anni, gli ha lasciato un segno. Mi risponde che sì gli piace ridere, ma che non lo fa molto. Il problema, “la molla”, è trovare qualcosa che faccia ridere e confessa di non farlo molto, perché “c’è poca gente divertente”.

Finalmente ci alziamo e camminiamo fino ad arrivare a piazza Plebiscito. Lì mi racconta che, se parti dall’inizio della piazza bendato non arriverai mai ad attraversare i due cavalli perfettamente nel centro. “Questo perché la piazza è troppo ampia e sconnessa”, dice “oppure è la maledizione della regina Margherita. Scegli tu a cosa credere”. Scegliamo di comune assenso di credere ad entrambe. Infondo cosa sarebbe la realtà senza un po’ di fantasia? Sicuramente un film poco vivo.

Continuiamo la nostra chiacchierata e arriviamo fino a Mergellina. Non c’è posto migliore per concludere il nostro incontro se non davanti al mare. “Dà una pace all’anima, anche solo guardarlo per un attimo” e sono proprio d’accordo.

Si lascia sfuggire che lui e sua moglie si sono innamorati davanti al lungo mare di Napoli. “Prima eravamo amici, poi ci siamo innamorati, così, guardando le persone passare. Ci divertivamo a immaginare le loro biografie e inventavamo storie”. Apprezzo molto questa piccola apertura sulla sua vita personale.  

Gli porgo un’ultima domanda prima di salutarci. “Come vede il Napoli quest’anno? Riuscirà a fare il miracolo e a rivincere lo scudetto?”. Molto probabilmente si aspettava questa domanda dall’inizio e quasi con scaramanzia mi liquida dicendo che non parla in modo esplicito di due cose “del nuovo film e dello scudetto. Anche se quest’anno lo vedo abbastanza lontano”. Può sembrare una domanda “leggera” per chi non è un grandissimo appassionato. Non è il suo caso, visto che il Napoli calcio o, meglio, Maradona gli ha salvato la vita, letteralmente, come ha già raccontato nell’ultimo film uscito “È stata la mano di Dio”, nel 2021.

Lo ringrazio per il suo tempo e per questa chiacchierata concessa in un momento di lavoro molto pieno per lui. Se ne va così com’è venuto, con passo leggero e calmo, ma non prima di farmi notare, da ottimo osservatore qual è, che il caffè non l’ho bevuto tutto. “Ah, brutto segno” mi dice, con il suo solito sorriso che ho imparato a conoscere in questa intervista.

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