Questa è una delle esercitazioni svolte dalle studentesse e dagli studenti che stanno frequentando il laboratorio di giornalismo, tenuto dal Professore Maurizio Boldrini. Sono da considerarsi, per l’appunto, come esercitazioni e non come veri articoli.
di Camilla Laurenti
Cerco scrupolosamente di non fare troppo rumore, mi limito ad osservare, e ad ascoltare. Ascolto la frenesia di chi sta aspettando. Mi chiedo spesso quale sia il confine tra il bene e il male, qual è quel confine sottilissimo oltre il quale non si può scavalcare. Al valico di Rafah, io mi sento fragile, domandandomi come sia possibile riuscire a scoprire l’uomo solo nel momento della sofferenza. Sposto il mio sguardo più lontano e lo vedo arrivare. Vedo arrivare una Jeep bianca della Croce Rossa, ma non è quella carica di aiuti umanitari, stavolta dentro ci sono le persone. Le stanno riportando qui, stanno per varcare la soglia della speranza. Dai finestrini si intravedono sguardi che non saprei definire o, meglio, sembra che i volti non abbiano sguardi. C’è silenzio intorno a me, o forse sono io che mi sono spenta. Nel luogo in cui il cielo si tinge di bagliori arancioni ed esplosioni, ho avuto voglia di restare immobile. Proprio come gli sguardi che ho visto tra i finestrini.. Comunque ora scendono, mi avvicino a loro e posso osservarli meglio.
Mi riprendo e improvvisamente mi rendo conto che in realtà i rumori ci sono, e come. Clacson, schiamazzi, fischi e applausi. Sembra esserci aria di festa. O forse siamo tutti in preda a un lapsus collettivo. La gente sembra per un attimo felice, sta festeggiando un piccolo attimo di dimenticanza. Stanno festeggiando la semi-libertà. Scendono uno ad uno e lentamente, in fila indiana. La prima persona su cui mi soffermo è una signora, lei non si accorge di me, sicuramente starà cercando se tra la folla riconosce un volto famigliare. Non si tiene in equilibrio da sola, necessita del sostegno di uno dei volontari che la sorregge per un braccio. Porta una tuta verde. “Verde speranza”, continuo a pensare.
Continuo a seguirla con gli occhi e la vedo dirigersi verso una dolce donna di circa ottant’anni. Si assomigliano, sarà sua sorella. Vorrei avvicinarmi per chiederglielo, ma non me la sento. Voglio lasciarle vivere questo magico momento di ritrovo. Subito dopo di lei c’è un altro ostaggio che è stato rilasciato. Ostaggio. Fino ad adesso non avevo ancora usato questo termine. La persona che il “nemico” tiene, chiunque venga trattenuto come pegno o garanzia contro un avversario. Il soggetto in questione è un bambino. Ha più o meno sei anni, indossa un cappello di Spiderman e degli occhiali rotondi da vista. Lo guardo attentamente, lo guardo mentre mi domando perché era lì dentro. Perché non eri a casa a vederlo, Spiderman, sul divano con la tua famiglia.
E allora mi chiedo dov’è la sua famiglia. Ma mi basta poco per capire che lo stava aspettando perché sento le urla di sua madre che appena lo ha visto scendere, è corsa incontro a lui. Le riconosci sai, le urla di una mamma che pensa di aver perso il proprio figlio e le riconosci perché ti entrano nel petto e ti feriscono come se fossero lame puntate proprio lì, sul cuore. Sono sicura che sua madre per venti giorni non abbia respirato e solo ora, solo ora ha ripreso a farlo.
Le loro palpitazioni, io, le riesco a percepire. La madre controlla se sta bene, gli bacia la fronte, gli stringe forte quelle manine piccole. Accenna un leggero sorriso e lo fa perché, in un posto in cui le mani di un figlio diventano un foglio su cui scrivere il proprio nome per poterlo riconoscere in caso di morte, aver avuto la possibilità di stringerle è una benedizione. Lo tira a sé, gli domanda qualcosa che non riesco a comprendere, ma la vedo avvicinarsi alla bocca di suo figlio, appoggiando quasi il suo orecchio alle sue labbra per riuscire a sentire quel leggero mormorio.
Il bambino ha parlato, senza aver emesso un suono. Lei fa finta di niente, non è troppo importante ora aver capito, ma felice lo prende in braccio sussurrandogli “Ho pregato ogni giorno per te, e finalmente ti hanno portato qui”. Ognuno di loro ha una storia. Ognuno di loro ha un padre, una madre, un figlio, un nipote, una nonna o un amico che li cerca disperatamente. Ognuno di loro ha un proprio affetto che gli è stato strappato via. Non voglio guardarli, ma io devo guardarli. Ma intorno a me c’è il caos. Tutti accalcati alla ricerca disperata di un segnale di vita, di un barlume di fede. Tutti con la tremenda sensazione di essersi persi nell’oscurità cercando disperatamente un briciolo di luce.