Scalfari è stato un protagonista dell’Italia repubblicana
Era una di quelle persone alle quali speravamo fosse stato dato , dalla sorte o da qualche dio, il dono dell’eternità. Ma lui sapeva che non era così e negli ultimi testi, sia giornalistici sia filosofico-letterari, più che pensare a ciò che aveva fatto e ciò che aveva vissuto, si distendeva verso l’infinito cercando di cogliere quel nettare che solo la grade vecchiezza può dare, la saggezza. Eppure di cose ne aveva fatte tante. Nel giornalismo, innanzitutto ma anche nella politica e nella vita dell’Italia del Secondo Novecento, nella quale è stato uno dei protagonisti della scena pubblica.
Tanti diranno di lui politico, di lui che sceglie come gran parte dei “terzini, come venivano chiamati gli azionisti, stretti nella morsa delle due grandi culture novecentesche , quella cattolica e quella, comunista, eppure decisivi nell’imprimere un volto repubblicano e democratico alla cultura sbocciata di nuovo con la Resistenza. E con un altro azionista, Arrigo Benedetti, farà vivere uno dei più alti esempi di giornalismo, come il settimanale l’Espresso. Quello dai grandi fogli, l’Epressone, con pagine di inchieste sull’inaffondabile balena bianca, sui palazzinari che strozzavano la bella Roma in una morsa di cemento, con grandi foto che sembravano sequenze dei film neorealistici che andavano di gran moda. Non a caso lui, come quasi tutti i giornalisti, gli scrittori, e quelli che tentavano di fare di Cinecittà una seconda Hollywood, passavano le notti in Via Veneto. Che gioia per i paparazzi.
Quando, negli anni Settanta, cambia il ritmo del paese con il terrorismo che corre il rischio di corrodere la democrazia, con le grandi conquiste come divorzio e aborto che fanno avanzare il paese sul ma anche i partiti di massa che iniziano a dar segno di cedimento, il suo capolavoro: insieme ad un gruppo di solidi amici crea dal nulla la Repubblica che porta il suo nome, che rompe gran parte degli schemi giornalisti preesistenti. Se l’Espresso era stato il gran foglio, il quotidiano neonato sceglie la piccola dimensione, inedita per l’Italia, quella del tabloid. Taglia fuori la terza pagina ( unico precedente tentativo, il Giorno nel 1956) e crea un paginone centrale dove fonde cultura alta e bassa, le arti e lo spettacolo, elimina lo sport. Che azzardo! C’è la generazione che ha fatto il Sessantotto che nel frattempo sta diventando classe dirigente ed è a quel pubblico che Scalfari parla. E ci sono i giornali di partiti che incominciano a sentire la terra mancare sotto i loro piedi. Ed è anche a quel pubblico che Scalfari parla, creando un “giornale bandiera”, una testata che si schiera ma che non è di partito. Nascono, di fatto, i cosiddetti giornali di tendenza che da allora in poi invaderanno le nostre edicole.
Verranno gli anni della crisi. Lo sport riconquisterà i suoi spazi. I supplementi fioccheranno. E più che altro, La repubblica di Scalfari, si farà portavoce di quell’Italia che non vuole arrendersi al brigatismo, anche durante i dolorosi giorni del sequestro Moro. Da quotidiano di nicchia diventerà sempre più giornale popolare. Diventerà anche un giornale con riti interni, come il suo editoriale domenicale, altrimenti detto “messa cantata” o con le rubriche affidate alle firme di intellettuali o giornalisti che condividevano con lui il gusto del mestiere.
Ma cos’era per Scalfari il giornalista? Ricordo spesso, durante i corsi, una sua lapidaria definizione di qualche anno fa: il giornalista è una sottospecie funzionale dello scrittore. Perché deve saper narrare e sceneggiare, come fanno appunto gli scrittori, ma deve sempre tenere presente che i giornali, di qualunque tipo, hanno un loro pubblico. A questo pubblico lo scrivere deve essere funzionale. Se ne va uno scrittore che scriveva romanzi; se ne va un giornalista che era, appunto, una sottospecie dello scrittore. Se be va un inventore di giornali.