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Di festival in festival: la cultura si mangia o è mangiata?

In un Paese che ne è intriso, solamente negli ultimi anni la cultura sta diventando un vero e proprio veicolo di sviluppo. Il rischio che queste occasioni di divulgazione culturale diventino ennesimo teatrino televisivo parte del progetto egemonico del governo.

Di festival in festival: la cultura si mangia o è mangiata?
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16 Luglio 2025 - 12.15


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di Martina Narciso

Era solamente il secolo scorso che Enno Flaiano definì l’Italia “la patria dei Festival”, quando ancora era poco prevedibile la centralità che i festival avrebbero assunto nel panorama culturale italiano. Essenza di bellezza, arte e tradizione, la nostra Penisola diventa una meta imperdibile che da Nord a Sud accoglie manifestazioni di ogni tipo, dalla scienza all’innovazione, dal cinema ai fumetti, dalla storia alla fantascienza, dalle sagre tradizionali di paese alle fiere dei libri.

Ormai, i festival culturali in Italia si contano a migliaia: rispetto al 2019, il numero degli spettacoli è raddoppiato, quello degli organizzatori è cresciuto del 59% e sono più di quattrocento i festival culturali stimati l’anno. Un chiaro segno che, finalmente, il nostro Paese sta iniziando a vedere la cultura come un veicolo di sviluppo.

Conseguenza immediata di ciò è, ovviamente, l’evoluzione della promozione e consumazione della cultura, che offre tante opportunità quante sfide: il pubblico è più ampio oltre che diversificato e la necessità è quella di adattarsi a tale panorama rendendo gli eventi culturali più “eventi” che “culturali”. Le piazze così si riempiono di mode e presenzialismo, e ci si ritrova al Festival della Tv di Dogliani con trentacinquemila partecipanti attorno che non si sa se sono lì per i direttori editoriali dei quotidiani italiani o per Mara Venier e Stefano di Martino.

Perché se è vero che crescono le partecipazioni ai festival, è altrettanto vero che forse ciò accade per la presenza di personalità televisive e pubbliche all’interno di essi: il pubblico è conquistato sì dai contenuti, ma soprattutto dal medium. E così si rischia che il festival perda la sua identità divulgativa a favore di una postura spettacolare e televisiva, con la conseguenza di attrarre un pubblico sempre più digiuno di cultura.

«Oggi, più che mai, abbiamo bisogno di ciò che accende la mente e riscalda lo sguardo – commentano i direttori del Festival della Comunicazione 2025 di Camogli Rosangela Bonsignorio e Danco Singer – Il Festival rinnova energia e legami, è un’esperienza collettiva di pensiero e creatività, dove ogni incontro, ogni parola, ogni gesto condiviso diventa un’occasione per ritrovare fiducia e orientamento, proprio mentre il mondo sembra averli smarriti».

Per questo è fondamentale che questi contenitori siano quanto più variegati e ampi possibile, stimolando l’innovazione, piuttosto che l’omologazione, attingendo per tali eventi a nomi più autorevoli, seppur minori, invitando giornalisti culturali emergenti o legati al territorio, anziché i soliti protagonisti affermati che, per quanto autorevoli, non fanno altro che rendere sempre meno accessibile quella fascia di organizzazione culturale già troppo elitaria.

Si rafforza sempre più quella triade di TV-festival-cultura e si perde del tutto di vista quell’autentico intento divulgativo della cultura per occhi e orecchie sempre più attratti dalla mera spettacolarizzazione e attrattiva televisiva conformista. Acquistando sempre più autorità, credito e influenza, la cultura rischia di essere centralizzata e controllata da pochi divenendo solamente un, prendendo in prestito le parole di Ernesto Galli della Loggia, “importante capitale politico”.

Si crea così quella “egemonia” di cui parla Ernesto Galli della Loggia nel tanto discusso editoriale per il Corriere del 12 luglio: «cioè avendo delle idee, delle buone idee, sapendo poi trovare le persone e i modi giusti per trasformarle in iniziative, in istituzioni, in prodotti, libri, mostre, film. È così che si acquista credito, autorità e influenza nel campo della cultura: credito che alla lunga diviene prestigio, e che nel caso di un partito finisce poi per riverberarsi su di esso e per trasformarsi in un importante capitale politico». Facilmente intuibile da queste primissime righe il perché Galli della Loggia sia finito nel mirino del niente di meno del Ministro della Cultura Alessandro Giuli stesso, difensore delle accuse rivolte al governo di avere più a cuore le «poltrone» e gli «strapuntini» che genuine e proficue idee per muoversi nel campo della cultura («Che ci vuole?»).

Il battibecco è nato da una mancata pubblicazione in pagina di un’intervista fatta al ministro, rifiuto visto e denunciato in un post su Facebook come un atto di “censura”. Sono state omesse, tuttavia, le reali motivazioni per cui il Corriere si è rifiutato di pubblicarlo: gli insulti a Galli della Loggia («cameriere» e «perditempo» assiso su una «poltrona di lusso»)  in merito a quello stesso editoriale che attaccava il governo, oltre che il suo invito a dimettersi dalla sua posizione.

Forse un nervo scoperto per il Ministro di quella Cultura che da Galli della Loggia dovrebbe essere incentivata, al posto di quelle «scimmiottature delle vuotaggini parlamentari» e la Rai, se è vero che è la più grande industria culturale del Paese, si sarebbe dovuta servire di questo suo potere per mettere gli italiani un po’ al «corrente delle molte cose del mondo di cui sono in genere digiunassimo» al posto di «obbligarci a vedere ogni sera tristi ragazzette rifatte, tristi comici spompati e fiction raccapriccianti».

Non un banale scontro fra potere e stampa, bensì l’ennesima conferma che – ritornando al punto di partenza – è in aumento la fruizione culturale nel nostro Paese sì, ma quanto può essere un successo se inizia a essere sempre più persa la pluralità delle voci e dell’offerta? I rischi valgono davvero le opportunità? Si sta mettendo sempre più mano sulla cultura, ma è necessario rimanere vigili su di chi siano quelle mani. 

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