Gabriele Lavia non smette di sorprendere. Le qualità attoriali e registiche di cui è provvisto sono ben note, ma l’ultimo spettacolo da lui allestito aggiunge ulteriore valore al suo invidiabile percorso artistico. Si tratta di Un curioso accidente, deliziosa e istruttiva (come intendeva essere) commedia di Carlo Goldoni messa in scena dalla sua Compagnia, che ha debuttato al Teatro Argentina di Roma, in programma sino al 19 novembre prima di approdare in altre città.
L’attore milanese si confronta per la terza volta con il mirabile commediografo cittadino della Serenissima, dopo Il vero amico e La donna vendicativa: singolare la scelta di tre opere considerate “minori”, nei cui testi egli vuole evidentemente scavare per trarvi le tante gemme nascoste. A Lavia va innanzitutto il merito di aver riproposto una pièce in Italia non troppo rappresentata, malgrado figuri tra le opere del Veneziano più tradotte – segno questo di non poco momento; poi, di averla messa in scena cogliendo l’incisività del teatro goldoniano, restituendo in tutto il loro vigore le sfumature coloristiche dei caratteri, con la levità e assieme la profondità infuse dall’autore. Assistendo alle oltre due ore di rappresentazione si percepisce appieno quel “dilettevole solletico nell’uman cuore” che egli si proponeva di suscitare con la sua arte, si ravvisano i segni, la forza, gli effetti delle umane passioni (in particolare dell’amore nelle sue varie manifestazioni), la capacità del suo Teatro di comporre i molteplici elementi offerti dal Mondo (i due riconosciuti maestri di Goldoni), con la gamma di profili, d’impeti e d’impulsi, di “avvenimenti curiosi”, com’è appunto la storia rappresentata, di cui si dichiara l’autenticità.
Singolare è pure la scenografia, curata da Alessandro Camera, all’apparenza poco “borghese” (il ceto mercantile è al centro della scena), o forse profondamente tale: paesaggi quasi diroccati e ambienti che indicano disfacimento, con enormi bauli ad alludere ad un continuo movimento, a partenze sempre rimandate, dinamismo che prende forma anche con accorati e repentini traversamenti dello spazio scenico, con lotte fisiche, corrispettivo visivo delle palpitazioni dell’anima e dei tormenti d’amore; e uno spoglio camerino in un canto, con qualche lampadina fulminata attorno allo specchio, scelta meta-teatrale a suggerire il tema del rapporto tra vero e verosimile, essere e apparire, forma e sostanza, scoperto richiamo al cuore dell’arte scenica. Appare insomma evidente il tentativo di dare sostanza drammatica ad un testo invero notevole, ben più profondo della classica commedia degli equivoci su cui è tessuto, la cui morale cristallina lascia il dilettato spettatore a riflettere sulle ipocrisie e sui difetti che ciascuno è così pronto a riconoscere negli altri, di rado in se stesso.
L’equivoco che supporta l’intreccio è presto detto: per allontanare il sospetto del proprio padre, il ricco mercante olandese Filiberto, che la ritiene innamorata di un giovane soldato francese nobile ma spiantato, una giovane fanciulla dà a intendere al genitore che colui sia innamorato di una sua amica, figlia di un finanziere acerrimo rivale in affari del padre, Monsieur Riccardo. Gli effetti sono impreveduti, godibilissimi per il pubblico e, sospettiamo, per gli stessi interpreti. I quali, come si dice in tali casi, appaiono tutti in parte: Federica Di Martino è Madamigella Giannina, la giovane apparentemente candida, ingenua ed algida, improvvida – poiché il caso nelle vicende umane sempre mette il suo zampino – deus ex machina della trama; Simone Toni raffigura un Monsieur de la Cotterie – il soldato innamorato di Giannina ospitato da Filiberto – fragile, vanesio e sin comico, anche grazie ad un’accentuata gestualità; Giorgia Salari dà la giusta verve popolaresca alla domestica Marianna, Beatrice Ceccherini la dovuta svenevolezza a Madamigella Costanza, figlia del burbero Riccardo, raffigurazione dell’affarista scaltro e intransigente, con la sua misura concreta delle cose articolata però con formule vuote e meccaniche, impersonato con trasporto da Andrea Nicolini, il quale anche colora acusticamente gli eventi con le note di un pianoforte posto ad un lato della scena (le melodie sono da lui medesimo composte, le parole sono invece di Lavia); Lorenzo Terenzi dimostra personalità nel suo Guascogna, l’innamorato di Marianna – sottotrama shakesperianamente intesa da Goldoni a rafforzare quella principale –, Lorenzo Volpe è lo sgambettante giovane al servizio di Filiberto; Leonardo Nicolini il secondo pianista a commentare la scena, illuminata in modo opportunamente dimesso da Giuseppe Filipponio.
E al centro c’è lui, Gabriele Lavia, lo sciocco e bonario Monsieur Filiberto, che s’illude di decifrare come pochi la realtà e l’animo umano, di comandare a casa propria così come spadroneggia nel mondo degli affari, personaggio disegnato con magistrali accenti capaci di fondere il comico ed il brillante con il dramma di un cuore che si sente tradito e ferito nella parte più molle e scoperta. Una figura di padre che, pur in tutt’altro contesto storico, teatrale e sociale, rimanda al Re Lear, per la cecità verso il reale e la citrulla supponenza di creder di tutto sapere e comprendere, sino alla dolorosa scoperta della propria dabbenaggine.
Tra le trovate proposte dall’allestimento, interessante la reciproca “invasione”: dello spazio scenico, dove siedono alcuni spettatori, anche interpellati dagli attori come ad accoglierli nella recita; e della platea, in cui scorrazzano gli attori, che a loro volta prendono il pubblico letteralmente alle spalle: fruttuosa commistione che polverizza la rigida barriera – anche psicologica – esistente tra uditorio e compagnia recitante. Così, in un crescendo di emozioni e di sorprese, lo spettacolo invera pienamente gli intendimenti di Goldoni, che proponeva il suo teatro al pubblico per “l’istruzion sua per mezzo del suo divertimento e diletto”.