Giuseppe Pambieri è tra i massimi interpreti del teatro italiano. Non servono giri di parole per presentare un artista sulla breccia da oltre un cinquantennio, che ha lavorato con i più grandi registi e attori il cui elenco sarebbe lungo da stilare. Talento poliedrico, a suo agio nel dramma come nella commedia, nelle varie sfumature dell’arte scenica, Pambieri ha messo il suo talento anche al servizio del cinema e della televisione, apparendo in decine di film e sceneggiati televisivi – come si chiamavano un tempo –, di fiction o miniserie – per parlar dell’oggi – di memorabile successo. In questi giorni è sul palcoscenico del Teatro Vittoria di Roma insieme a Carlo Greco nello spettacolo Nota stonata, notevole pièce del drammaturgo e sceneggiatore francese Didier Caron, per la regia di Moni Ovadia. Lo abbiamo intervistato per l’occasione.
Cosa l’ha intrigata di più nel testo di Didier Caron, Nota stonata? Come si è trovato con Moni Ovadia, alla sua prima regia nel teatro di prosa?
Quando l’ho letto sono letteralmente impazzito, non mi era mai successo. Carlo Greco ha visto questo spettacolo a Parigi, ha conosciuto l’autore che gli ha concesso i diritti, mi ha chiamato e mi ha fatto leggere il testo. Mi ha subito convinto, la stessa cosa è successa a Moni Ovadia, anche lui ne è stato travolto. È un’opera congegnata senza cali di tensione, con un finale inaspettato, liberatorio, dai grandi risvolti morali. Con Ovadia ci siamo trovati bene, ha voluto una scenografia semplice, lineare, ha dato delle idee interessanti, è un uomo intelligente, di grande cultura. Poi, con la mia esperienza, ho contribuito un po’ anche io, questo è un testo concentrato sulla recitazione, bisogna lavorare sul rapporto fra i due personaggi.
Come definirebbe il “mistero” dell’attore, quell’arcana alchimia che rende un professionista capace di creare dal nulla dei mondi, di comunicare delle emozioni decisive?
È il fascino del teatro, la sua essenza. Il teatro è un po’ lo specchio della nostra vita, però visto attraverso la fantasia dello scrittore, la forza espressiva dell’arte. Si crea una sorta di magia, che si proietta sul pubblico e dal pubblico torna su di noi, perché noi sentiamo il pubblico. In scena, psicologicamente ti senti il padrone, avverti un sentimento fortissimo, sai che puoi far scaturire certi sentimenti, certi riverberi emotivi, in quei momenti ti senti come un mago che può determinare qualcosa, e la bacchetta magica è il tuo corpo, la tua voce.
Quali sono stati i momenti della sua lunga carriera teatrale che serba più nel cuore?
Tanti. Prima di tutto, quando frequentavo la scuola del Piccolo di Milano, a metà anni Sessanta, Strehler ci cooptò tutti per fare Il gioco dei potenti, tratto da Shakespeare, 70 attori in scena, c’erano le battaglie, avevamo le armature. Una volta finito lo spettacolo le armature andavano in sala d’armi dove venivano ribattute, come nei tempi antichi. Un evento notevole, che però fu una débâcle. Partecipammo alle prove e imparammo moltissimo. Poi a 23 anni l’incontro con Franco Enriquez, mi volle per Le mosche di Sartre, a Vicenza, con Valeria Moriconi, e ne l’Ippolito a Siracusa, con Nando Gazzolo. Un altro passaggio importante fu entrare nella compagnia di Paolo Stoppa ed Enrico Maria Salerno, a 25 anni, in Giochi di ragazzi, nel 1970. Sul provino ricordo un aneddoto curioso. Oltre a Garinei e Giovannini c’era Salerno, aveva un aspetto burbero, chiuso, mi incuteva un po’ di soggezione (poi scoprii invece che era una pasta d’uomo), e mi dice: ‘Allora, lei fisicamente è perfetto, lo sapevo, la conosco. Se mi fa sentire qualcosa’. Sospensione, poi rispondo: ‘No, io non faccio provini. Sa, ho sempre fatto così, il provino mi disturba, non riesco ad essere me stesso’. Lui: ‘Ma qualcosa dobbiamo sentirla’. Intervennero anche Garinei e Giovannini, ‘Abbia pazienza, Pambieri…’ Io replicai: ‘Ho appena vinto la Noce d’oro con Le mosche di Sartre’, insomma sono rimasto fermo con la mia idea. A un certo punto mi chiedono di uscire, si parlano, arriva Garinei, ‘Aho Pambie’, ma te sei ammattito? Ma te rendi conto, sei uno dei tre protagonisti’. ‘Non me la sento’. In effetti non avevo preparato niente, proprio come concetto non facevo prove. Garinei torna di là, si consultano, poi rientra e mi dice, ‘Che te devo di’? Ci sentiremo in un’altra occasione’. Dopo due giorni squilla il telefono, era Garinei, ‘Aho, Pambie’, ma che c’hai fatto a Salerno?! Te vo’ vede’ comunque’. Vado di corsa al residence dell’Hilton, dove in quel periodo alloggiava Salerno, il quale mi mise una mano sulla spalla e mi disse: ‘Mi sei piaciuto, bravo, hai fatto bene. Eh, bisogna lottare, è giusto’. Mi chiese solo di leggere la mia parte sul palco, come fanno in America. La lessi, lui mi ha sorriso, ‘Perfetto’. Questo lo racconto ai giovani, però gli consiglio di non farlo, oggi fare una cosa così è molto, molto rischioso. Io ho avuto la fortuna di incontrare una persona intelligente, evidentemente gli ero piaciuto come persona, ha sentito che non ero spocchioso, ha avvertito che ero vero. Salerno era di una generosità incredibile. Quando facevamo lo spettacolo ci portava tutti a mangiare fuori, al ristorante se mettevo mani al portafoglio mi bloccava sempre. Stoppa invece, che era un po’ tirato, diceva ‘Io non lo capisco, vi porta al tabarin tutte le sere. Paga sempre lui, ma come fa?!’ Un altro momento fondamentale della mia carriera è stato il Re Lear di Strehler, dei momenti indimenticabili. Abbiamo debuttato mentre in televisione usciva lo sceneggiato Le sorelle Materassi, altra tappa importantissima per me, era il 1972. Io facevo la parte di Edmund, Lavia quella di Edgar. Strehler si eccitava con il mio personaggio, diceva, ‘Questo è il Riccardo III in nuce, ancora agli albori, lui è un villain, il classico villain’. Mi piaceva moltissimo, partivo dalla platea, urlavo, Natura! e si spaventavano tutte le vecchiette, bam!il riflettore su di me, stupendo. Lui, durante le prove, mi faceva ripetere ‘Natura’, ‘Natura’, ‘Natura’, con le varie intonazioni, non era mai soddisfatto. Era una cosa pazzesca, quell’inizio lo sfibrava, non riusciva a sentirlo giusto. Poi invece si eccitava, se gli piaceva l’attore si caricava e lo caricava, ‘Vai! Così! Così, cazzo! Così, vai! Bene! Bene!’ Era uno spettacolo. Se invece stava zitto mentre l’attore recitava voleva dire che non era soddisfatto.
Tra gli altri giganti, lei ha lavorato con Ronconi e Zeffirelli.
Indimenticabile l’incontro con Ronconi, in Venezia salva, dove facevo un rivoluzionario ormai sui cinquant’anni che cercava di insegnare a Jaffier, interpretato da Popolizio, come subornare Venezia. Una gran parte, con un monologo lunghissimo, il povero Popolizio doveva starmi ad ascoltare quasi per mezz’ora. Ronconi mi ha insegnato che la battuta non deve necessariamente riflettere la sua logica interna, deve anche riflettere quello che tu hai dentro. Magari reciti una battuta comica e sei disperato dentro. Questa dicotomia fa crescere il personaggio, gli dà spessore. Insomma, non si tratta semplicemente di recitare una battuta, c’è sempre un retropensiero, bisogna introiettare la battuta, altrimenti il pubblico la sentirà falsa. Anche con Zeffirelli fu un bellissimo incontro, con lui ho fatto La città morta, con la Ferrati. Ricordo un aneddoto stupendo: eravamo al teatro Circus di Pescara, il pubblico era pieno di influenzati, si sentiva uno scaracchio continuo, colpi di tosse, starnuti, a un certo punto la Ferrati si ferma e dice: ‘Scusate, adesso ci facciamo una bella tossita tutti quanti, ci sfoghiamo e poi si riprende, eh?’ È venuto giù il teatro, un applauso tremendo, e poi abbiamo ricominciato. Poi La coscienza di Zeno, abbiamo fatto tre anni con Maurizio Scaparro, dal 2012 al 2015. E to be or not to be, dal film di Lubitsch Vogliamo vivere!, ambientato a Varsavia durante la guerra. Sembra un pezzo sul Terzo Reich, poi gli attori diventano dei partigiani, uno spettacolo molto interessante, di teatro nel teatro, col fil rougedi un attore ormai avanti negli anni che si picca di mettere sempre in scena Amleto, e mentre recita un giovane dalla platea va in camerino a insidiargli la moglie. Mi cambiavo in 40 secondi, con barba baffi e tutto, una fatica bestiale, davvero si metteva in scena il gioco del teatro.
Com’è cambiato il tetro negli anni, dai suoi esordi a metà degli anni Sessanta ad oggi?
È cambiato molto. Intendiamoci, il teatro è sempre stato in crisi, quando sono entrato in arte tutti si lamentavano che il teatro era in crisi, lo è sempre stato. Adesso però è cambiato veramente tutto. Allora facevamo sei mesi di turni, c’erano meno compagnie, oggi c’è tutta una pletora di compagnie, basta che abbiano un minimo di visibilità in televisione e subito si buttano a far teatro, spesso con dei prodotti mediocri che ammorbano tutto. Poi il covid ha assestato un colpo micidiale. Il teatro era in ripresa, c’era stato un bel momento all’inizio del nuovo secolo, affluiva più pubblico. La pandemia ha dato un colpo fatale, si fa fatica a riprendersi.
E la differenza quanto ad attori, registi, tecnici?
Be’, un tempo c’erano autentici fuoriclasse, io ho lavorato con moltissimi di loro, con loro mi sono formato. Trovo che giovani bravi non manchino, però c’è molta supponenza. Quando escono dall’Accademia credono di aver raggiunto il massimo, e non è così. Io consiglio a tutti, ‘State ad ascoltare, se fate una parte piccola in uno spettacolo approfittatene, guardate i primi attori, osservateli, assorbite’, perché lì si impara più che in Accademia, il palcoscenico è la vera palestra d’un attore.
Lei ha frequentato vari mezzi espressivi. Preferisce recitare per il teatro, il cinema o la televisione?
Cinema e televisione mi piace farli, però è nel teatro che trovo più soddisfazione, a prescindere dal successo. Ovviamente televisione e cinema ti danno più visibilità, quando facevo Incantesimo – l’ho fatto per 10 anni – i teatri erano pieni, la notorietà serve. In quel periodo facevo dei grossi spettacoli, allo stabile di Catania Il fu Mattia Pascal andò benissimo, il teatro era sempre pieno. La televisione mi manca un po’, ho voglia di tornare a fare qualcosa di importante, perché aiuta molto, è indubbio. Anche al cinema non ho mai chiuso le porte. Recentemente ho fatto un film molto bello con la regia di Francesco Bruni, Cosa sarà, l’abbiamo girato nel 2019, è stato presentato al Festival di Roma, accolto molto bene, è uscito un giorno e poi è scattato il lockdown, è uscito sulle piattaforme ma si è un po’ perduto. Facevo il papà di Kim Rossi Stuart, un bel ruolo, mi è spiaciuto molto che sia passato un po’ così.
Quali ricordi conserva delle grandi produzioni degli sceneggiati Rai che hanno segnato la storia della televisione italiana e che l’hanno vista protagonista?
La cosa più importante è stata Le sorelle Materassi, per la regia di Mario Ferrara. È stato il mio esordio alla tv, mi ha dato un successo incredibile. Recitavo con dei mostri sacri, Lina Morelli e Sarah Ferrati. Dovevo fare attenzione con la Morelli, mi diceva: ‘Stia attento Pambieri, mi vengono gli ematomi se mi stringe troppo forte’; la Ferrati, al contrario, ‘Mi raccomando, eh? faccia come deve fare, con il dovuto vigore’. In una scena dovevo trascinarle nello sgabuzzino, la Morelli con lieve tocco, l’altra invece con foga. Tra loro c’era un po’ di rivalità, anche se erano due mondi diversissimi, completamente opposti. La Morelli era una che dava pochissimo nelle prove, ma quando c’era da girare dava tutto, diventava gigantesca. Mentre la Ferrati era più di tradizione accademica, curava molto le prove, diceva, ‘Provando si arriva pian piano a farlo bene’, c’era questa dicotomia tra le due. Un altro sceneggiato di rilievo è stato Il signore di Ballantrae, dal romanzo di Stevenson, regia del grande Anton Giulio Majano, che ha insegnato a tutti. Impersonavo un villain, in pratica era un assassino. I personaggi cattivi mi hanno portato bene, ne Le sorelle Materassi, in questo, malgrado la mia immagine non sia da cattivo, ma forse proprio per quello diventa interessante fare il cattivo. Ricordo la scena del duello che abbiamo fatto con il fratello del mio personaggio, interpretato da Luigi La Monica, mi piaceva molto duellare. Anche in Accademia, nel saggio ho fatto uno scontro con Alberto Sironi, allora allievo anche lui. Fra l’altro, è grazie a un intervento suo che sono entrato nella scuola. Quando andai a iscrivermi alla scuola del Piccolo erano già finite le sessioni. Io mi ero iscritto alla facoltà di giurisprudenza alla Cattolica di Milano, e contemporaneamente provai a entrare lì, desideravo fare l’attore. Purtroppo avevano chiuso le sessioni, uscii, ma a un certo punto mi sento chiamare, ‘Senti, aspetta, hanno riaperto le iscrizioni’, oltre a me c’erano altri tre o quattro candidati, e così sono entrato. Insomma, mi piaceva molto tirar di scherma, facevamo dei bei duelli, il nostro insegnante era Enzo Musumeci Greco, il grande schermidore, maestro d’armi del cinema e della televisione.
Lei ha costituito con sua moglie Lia Tanzi una grande coppia artistica e nella vita. Lavorare con il proprio partner facilita o complica il ménage coniugale?
Be’, quando si litiga, in scena te la porti un po’ la lite, per cui certe battute magari sono più sentite, se devi dare una sberla affibbi una sberlona. Però poi se c’è un bel rapporto è chiaro che si avverte meno la solitudine. Un tempo si partiva in tournée anche sei mesi, col baule dietro, non era facile, vivere negli alberghi da soli così non era bello.
Quali sono i suoi prossimi impegni?
Fino al 29 gennaio saremo con Nota stonata al teatro Vittoria di Roma, poi a marzo tornerò al Vittoria con Una storia semplice di Leonardo Sciascia, un altro grande testo. In tournée estiva sarò a Segesta col l’Edipo a Colono insieme a mia figlia Micol, con la regia di Giuseppe Argirò, e ad ottobre al teatro Arcobaleno di Roma.