Un cranio d’elefante per un artista può essere fonte infinita d’ispirazione. Lo fu per Henry Moore, scultore britannico vissuto dal 1898 al 1986, gran disegnatore come documenta bene una doppia mostra aperta al Museo del Novecento in piazza Santa Maria Novella a Firenze, la prima rassegna a tagliare il nastro in Italia dopo il blocco totale per la pandemia sette giorni fa.
L’appuntamento si divide in due rami e in tre spazi dell’edificio: “Henry Moore. Il disegno dello scultore” è in parte al piano terra, con una sequenza di disegni tratti da un cranio d’elefante e il reperto medesimo al centro della sala più una seconda sequenza al primo piano. Qui i curatori sono il direttore della raccolta cittadina Sergio Risaliti e Sebastiano Barassi, Head of Henry Moore Collections and Exhibitions dacché l’istituto presieduto dalla figlia dell’artista Mary collabora all’appuntamento sostenuto economicamente anche dal Monte dei Paschi di Siena. In questo caso la rassegna è aperta fino al 18 luglio. Al secondo piano invece “Henry Moore in Toscana”, curata da Risaliti, fino al 30 maggio propone disegni e qualche bronzetto dello scultore di proprietà di collezionisti toscani.
Pecore, mani, acquerelli colorati
Ci sarebbe tanto da dire. Intanto diciamo che Moore disegnava per concepire le sculture e, come avvertono i curatori, per il piacere di disegnare. Partiamo allora da un elemento visivo: le 21 acqueforti ispirate al poderoso cranio sono uno scavo stesso in forme primordiali, antiche e moderne, astrazioni fatte di vuoti e pieni e sfumature. È un incontro carico di rimandi a forme primigenie.
Usciti dalla sala e saliti al primo piano, si incontrano altri disegni: tanti fogli raffigurano mani, proprie, da vecchio, pecore e paesaggi scabri, in acquarelli che sorprendono chi conosceva i disegni dell’artista immancabilmente in bianco e nero perché svelano colori tenui e sfumati capaci di rimandare a un altro britannico antesignano dell’astrazione novecentesca, Turner. Tanti i tronchi, altre forme che lo scultore-disegnatore amava ricreare su carta. In tutto una settantina di fogli: è una selezione bella e significativa, perfino toccante, tanto per metterla giù chiaramente.
Henry Moore al lavoro davanti al cranio di elefante, ca. 1970. Foto Errol Jackson, su permesso della Henry Moore Foundation
I disegni dai collezionisti toscani
Poi c’è l’altro capitolo. Quello che raduna opere, quasi tutti disegni, di collezionisti toscani. Stupirà forse meno chi conosce un po’ Moore ma non troppo. Vi ritroviamo le sue forme fatte di tanti vuoti, le sue donne reclinati dalla testa misteriosa e arcaica e questo capitolo porta a dire come nasce questa mostra. Moore, lo raccontano le note, lo racconta la figlia, lo racconta chiunque lo abbia conosciuto, ha stretto un rapporto strettissimo con la terra toscana fin dal 1925. Amava Masaccio, amava Michelangelo, dalle cave del marmo sulle Apuane ricavo materia prima, andò per anni e anni in vacanza in Versilia dove frequentò letterati come Eugenio Montale, critici come Roberto Longhi, pittori come Carlo Carrà, la titolare della benemerita stamperia d’arte fiorentina Il Bisonte Maria Luigia Guaita.
Grazie anche quei rapporti personali nel 1972 Firenze allestì al Forte Belvedere una corposa e monumentale mostra di Moore che un filmato di allora documenta. A proposito: fu tra i primi inserti d’arte contemporanea in contesti antichi: oggi è naturale, a quel tempo la rassegna riprendeva il filone aperto da Giovanni Carandente quando, nel 1962, per il Festival dei due mondi di Spoleto collocò nelle vie cittadine sculture monumentali dei maggiori e spesso astratti artisti viventi. Non era così scontato e facile come adesso.
La figuraccia, rimediata, del guerriero
Negli annali dell’arte la rassegna a Forte Belvedere, con le sculture con il buco centro di Moore e sullo sfondo la cupola del Brunelleschi, ha fatto storia e consolidò il suo rapporto con la città del Rinascimento così amata. La quale non sempre ricambiò: lo scultore lasciò la scultura “Il guerriero” alla città, finì semi-dimenticato e relegato a languire in un cortile, lui a ragione lo riprese. Il clamore arrivò sulla stampa di mezzo mondo, Firenze fece una figuraccia, finché il sindaco Massimo Bogianckino (1922-2009) tessé i giusti fili e riuscì a riportare la scultura in città per collocarla in un luogo nobile, il cortile della basilica e cenacolo di Santa Croce, non senza polemiche cittadine perché la modernità profanava il medioevo e il rinascimento.
Come ha ricordato già qualche cronista, la città industriale laniera di Prato fu più lesta e aperta e piazzò una scultura, anch’essa “col buco”, in una piazza. Mettiamola così: una mostra del 1987 a Palazzo Vecchio e questo appuntamento rinsaldano il legame Moore-Firenze dopo quella pessima figura della città.
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