A 95 anni se n’è andata sabato una delle grandi restauratrici del nostro paese, Pinin Brambilla Barcilon. Forse il nome non vi risuonerà immediatamente familiare se non seguite le cose d’arte e siete giovani eppure è lei l’artefice principale di uno degli interventi più complessi dell’arte: quello all’Ultima cena di Leonardo da Vinci a Milano. Quel restauro in Santa Maria delle Grazie fu difficilissimo perché la pittura murale si degradò fin dai primi anni già a inizio ‘500 per le tecniche sperimentali provate dal pittore-scienziato che non reggevano. Essendo una delle opere-cardine dell’occidente, non mancarono polemiche furibonde sul suo lavoro che il tempo ha dimostrato invece di rara eccellenza, come riconobbe uno storico dell’arte severo e ben poco conciliante quale era Federico Zeri.
Milanese, Pinin Brambilla Barcilon lavorò nel Cenacolo dal 1977 al 1999. Era arrivata a studiare e toccare l’opera di Leonardo forte di un robustissimo curriculum. Aveva risanato affreschi di Masolino nel Battistero di Castiglione Olona (nel varesotto), la Vocazione di san Matteo del Caravaggio, darà il suo contributo al restauro degli affreschi di Giotto nella Cappella Scrovegni a Padova, aveva restaurato opere di Lorenzo Lotto, del Bronzino, Tiziano, Tiepolo, arrivando al ‘900 di Man Ray e del maestro dei “tagli” su tela, Lucio Fontana.
Leonardo resta l’apice del suo lavoro, se non altro per complessità: da persona discreta, che non amava i riflettori, consegnò al memoir La mia vita edito da Electa in 117 pagine scorrevolissime il racconto di quel lavoro che poteva apparire immane e che lei affrontò con una preparazione meticolosa, con approccio scientifico e, occorre ricordarlo, una dose robusta di coraggio. In quel libro la restauratrice intrecciava alle storie d’arte lampi sulla sua vita, di una donna sostenuta sempre dal marito e che veniva rosa dai sensi di colpa per il tempo che il lavoro sottraeva alla famiglia e al figlio, sensazione che molte donne conoscono a fondo a differenza degli uomini.
Pinin Brambilla fondava sulla conoscenza scientifica quanto poi traduceva in lavoro manuale. Così descrisse, come incipit del libro, il suo lavoro: «Il rapporto che si stabilisce con l’opera che si restaura è un rapporto di empatia, una capacità che si esercita con la mente e con il cuore di immedesimarsi nell’opera d’arte, di percepirne l’intima struttura, di catturarne l’anima, la verità più autentica. Il senso di responsabilità e la messa in gioco della propria sensibilità percorrono tutta l’ampiezza delle vibrazioni e raggiungono il punto più alto del diapason. La sensazione è che sia in corso un rapporto esclusivo tra sé e l’opera d’arte».
La sua lezione non è stata dimenticata e ha lasciato il segno. Fu lei a fondare il Centro Conservazione e Restauro “La Venaria Reale” a Torino. L’istituto la ricorda con un post su Facebook: «Non ci sono molte parole per salutare una figura tanto importante per il nostro Centro, per tutti noi e per l’intero mondo del restauro. Il suo rigore e il suo esempio resteranno un punto di riferimento, che continuerà a vivere nelle nostre scelte e nelle nostre azioni». Dal Museo del Cenacolo vinciano l’hanno ricordata con queste parole d’affetto e ammirazione: «Tenacemente attiva fino all’ultimo, è stata autentica protagonista delle trasformazioni di una professione che nel corso del Novecento è mutata dal profondo. Anche da questo punto vista il suo intervento sulla Cena di Leonardo è epocale. Perciò con vero affetto e con gratitudine tutti noi che lavoriamo per il patrimonio della Direzione regionale musei salutiamo l’autentica Signora del Cenacolo».
In ultimo, sarà giusto ricordare che era anche una persona di estrema cortesia e, allo stesso tempo, giustamente, manteneva un estremo rigore perché sorretta dalla consapevolezza di toccare e “curare” opere dell’umanità.