Le sculture e le altre opere d’arte dall’Africa nei musei occidentali sono benvenute, ben accolte, riconosciute come opere di autentici maestri e di un’arte che oltretutto ha cambiato la visione dell’Occidente: basti ricordare artisti quali Picasso e il suo dipinto che ha segnato una svolta nel XX secolo, Les Demoiselles d’Avignon (1907), oppure Modigliani che a inizio ‘900 a Parigi raccolse ispirazione anche dalla cosiddetta “arte negra”. Quelle opere sono benvenute, le persone che vengono dai quei territori no. È un paradosso e va affrontato.
Riassumiamo quanto riferisce un’antropologa britannica, Charlotte Joy, in un lungo articolo sulla rivista online aeon.co . La ricercatrice della Goldsmith University di Londra guarda soprattutto alla Francia, oltre che alla Gran Bretagna, e a quel museo popolato da capolavori dove le manifestazioni figurative dal subcontinente africano sono tenute ed esposte con i dovuti onori: il Musée du quai Branly – Jacques Chirac di Parigi. Eppure Charlotte Joy, autrice del saggio The Politics of Heritage Management in Mali: From Unesco to Djenné (2012), non può fare a meno di notare che “mentre gli oggetti dalla periferia (in questo caso gli oggetti presi dagli europei all’Africa occidentale e portati nel nostro continente, ndr) erano benvenuti al centro (cioè le metropoli europee come Parigi e Londra, ndr), le persone non erano affatto benvenute.
Dall’indipendenza dei Paesi dell’Africa occidentale negli anni ’50 e inizio dei ’60, la conservazione degli oggetti e il rigetto delle persone si è caricato sempre più. I giovani migranti senza documenti dalle ex colonie francesi stanno alla larga dal Musée du quai Branly, un museo parigino pieno del loro patrimonio culturale a loro inaccessibile. I migranti vengono trattati con disprezzo mentre gli oggetti dalle loro terre vengono presi in carico e trattati con grande rispetto nei musei. I migranti verranno deportati ma gli oggetti non verranno rimpatriati”.
Una contraddizione: si comprende che per la studiosa è una contraddizione da sanare, ingiusta. Charlotte Joy guarda anche in prospettiva: “L’Africa sub sahariana ha un profilo demografico unico. Nel 2050 lì saranno i dieci paesi con la popolazione più giovane al mondo. La maggior parte dei leader occidentali – scrive l’antropologa – vorrebbero vedere Stati forti e solidi nell’Africa occidentale in grado di dare ai loro cittadini lavoro, orgoglio culturale e buoni motivi per restare e costruire nuovi futuri. La restituzione di oggetti dai musei potrebbe diventare un elemento centrale nella costruzione di questi paesi, smonterebbe parte del male provocato dal progetto coloniale e sosterrebbe economie emergenti e creative”. E ancora: restituire quelle opere per Charlotte Joy costituirebbe “un forte gesto di contrizione” e riaprirebbe “il dialogo su torti del passato per stabilire relazioni migliori per il futuro”.
Così come giustamente riconosciamo agli eredi di ebrei il diritto a riavere, opere che furono confiscate o acquistate a prezzi da ricatto dai nazisti, per l’antropologa britannica altrettanto dovremmo fare verso l’arte africana. Che in Italia è rappresentata a livello istituzionale soprattutto dal Museo Pigorini inserito nel Museo delle Civiltà all’Eur a Roma, anche se lì le opere dall’Africa nera sono frutto per lo più di donazioni e di missionari più che di razzie come accade a Londra o Parigi.