Marina Abramovic ha visto e vissuto la guerra nei Balcani. Non è certo tipa da temere le rappresaglie mediatiche e le censure. La star internazionale della performance a Trieste si è vista censurare dallʼamministrazione leghista un manifesto per la regata della Barcolana, solo perché recitava “Siamo tutti sulla stessa barca”: riferito ai mutamenti climatici, i leghisti lʼhanno letto come una sottile critica alla politica respingente sui migranti e, con ammirevole spirito democratico, lo hanno respinto. Quel manifesto è adesso affisso su un muro esterno a Palazzo Strozzi a Firenze dove lʼartista nata a Belgrado ha, da venerdì 21 settembre al 20 gennaio 2019, la sua prima vasta retrospettiva italiana intitolata “The Cleaner”.
La Lega stronca ogni dissenso: via poster della Abramovic
“La Lega? Significa che lʼarte ha potere, è meraviglioso”
Al vicino cinema Odeon, al rito della conferenza stampa, l’artista dapprima si sorprende, a ragione che nessun giornalista le abbia chiesto del caso triestino. Allora alla domanda su quella censura posta dal co-curatore e direttore della Fondazione Strozzi Arturo Galansino, la performer non si scompone di un millimetro: “Sono felice che un semplice manifesto abbia creato queste polemiche con la Lega. Significa che lʼarte ha questo potere ed è meraviglioso. Lʼessere tutti sulla stessa barca può essere interpretato in maniera banale o con una prospettiva più ampia, noi umani siamo tutti su questo piccolo pianeta blu sospeso nello spazio”. Fiducia incondizionata nellʼarte anche se lʼamministrazione leghista di Trieste ha oscurato il poster. Pazienza: il palazzo rinascimentale raccoglie i suoi lavori dai primissimi anni ʼ60, quando dipingeva e disegnava, ai più recenti distribuiti tra i sotterranei della Strozzina e il piano nobile. E dove “The Cleaner” (cioè lei che fa pulizia sulla sua lunga storia) documenta, con video, foto, testi, testimonianze, ricordi, sculture, installazioni, appunti, le sue performance più note e celebrate, le esperienze estreme dove ha messo alla prova il corpo, la psiche sua e, talvolta, del pubblico.
Cristina Acidini elogia “lʼaura di Marina”. Ma è difficile ricrearla
Le performance coprono un ampio raggio: quando ha rischiato la pelle in mezzo al fuoco che consumava lʼossigeno, quando, nuda dirimpetto allʼallora compagno di vita e dʼarte Ulai, ha fatto passare in mezzo alla coppia impassibile gli spettatori-visitatori. Oppure il video di quando la coppia, nuda, si lancia contro una colonna di una galleria dʼarte, quando la coppia urla, si bacia, si schiaffeggia, quando lei da sola spolpava ossa alla Biennale di Venezia del 1997, dove vinse il Leone dʼoro per la tragica efficacia con cui rievocava il macello umano della guerra balcanica. Si pone un problema, però. Anzi sempre in conferenza stampa lo pone indirettamente la storica dellʼarte e presidente del consiglio scientifico della Fondazione Strozzi Cristina Acidini: “Marina Abramovic ha captato lʼaura che emana lʼartista stessa, ha messo il suo corpo a disposizione rendendolo oggetto e soggetto esponendolo anche a rischio della sua incolumità. Lʼaura che lei emana investe le persone, gli oggetti, perfino la Grande Muraglia cinese diventa parte di unʼarte nuova quando lei e Ulai la percorrono” (fu una perfomance storica che sigillò dolorosamente e pacificamente la conclusione del loro rapporto dʼamore e di artisti). Parole azzeccatissime. Che colgono una discriminante cruciale: si può replicare le performance, forma dʼarte fuggevole e legata a chi la pratica? Tanto più quando la performer è una artista carismatica ed estrema come Marina Abramovic? Qui si incunea una contraddizione irrisolvibile per una mostra sulla performance: da un lato è necessaria per far conoscere una delle più diffuse forme praticate dagli artisti nel globo, e ormai accettate, affidandole a performer attori ballerini allenati adeguatamente; dallʼaltro senza la performer quelle azioni mancano appunto di quella “aura”.
Poiché la performance è arte visiva e spettacolo, lʼinterrogativo si pone per esempio con il rock: un concerto dei Rolling Stones non si può replicare senza Jagger, Richard e compagni. Qualcuno potrà farlo: sarà unʼaltra faccenda, potrà aver più o meno validità a seconda dellʼinterpretazione. Da questa ambivalenza non si scappa e neppure la mostra fiorentina può evitarla, per quanto sappia raccontare le tappe salienti durante mezzo secolo di inquietudine e azioni. Tra le azioni viste, a differenza di altre “Luminosity” sembra dotata di maggior intensità: una performer, nuda, si sostiene nel vuoto solo poggiando la vagina su un perno. Fatica? Soffre? Resiste? Ansima e lo sguardo è forte. Anche la coppia lei-lui nudi che fa da portale proprio allʼinizio del percorso al piano nobile suscita qualche imbarazzo, incertezze, spavalderia in chi vuole attraversarlo. Non può tuttavia essere scardinante come qualche decennio fa, la storia non scorre a vuoto.
Abramovic: “La performance può durare senza di me”
Di fronte a una domanda sul rivedere le sue performance Marina Abramovic non arretra e anzi dalla risposta si intende che ha riflettuto a fondo: “Ho inventato io la ri-perfomance perché ero furiosa su come vari media usavano la performance senza dare credito agli autori delle performance. Ho visto anche giovani copiare performance e critici lodarli perché innovativi. Per una ri-perfomance devi chiedere il permesso, devi pagare i diritti, devi studiare il materiale, devi prepararti molto bene, come un violinista suona Beethoven, da un punto di vista fisico e mentale”. E cosa prova? “Sono una persona molto emotiva, provo due sensazioni. Cʼè un distacco ma cʼè anche la felicità di vedere che il lavoro può durare senza di me”. Pensa forse al futuro, alla sua eredità culturale, a come salvare la memoria di quanto ha creato. “Negli anni ʼ70 non veniva accettata come forma dʼarte, intervenivamo davanti a 30-40 persone, adesso sento di aver dato uno speciale contributo”.
“Donne-artista, cʼè un senso di colpa”
Marina Abramovic registra anche di essere la prima donna protagonista a Palazzo Strozzi. Meglio tardi che mai. “Spero di non restare lʼunica e che altre seguiranno” (nel 2019 ci sarà una mostra su Natalia Goncharova, russa, una delle più fantasiose artiste del primo ʼ900). Discriminazioni? “Non è difficile essere donna artista, è importante non aver paura di niente e nessuno. Quando sono arrivata in Italia le artiste erano poco visibili. Abbiamo a che fare con una cultura maschile e su come si educano i figli maschi in questo paese. Le donne hanno un ruolo di fragilità, il che è totalmente falso. Ma cʼè un senso di colpa nelle donne”. Per lʼappunto: inculcato, destabilizzante, immotivato. “Lʼarte non si può definire maschile o femminile, è solo buona o cattiva”, esclama la perfomer. Per concludere: va benissimo utilizzare la tecnologia, ma “Instagram – sentenzia – non è arte”.
Marina Abramovic, “The Cleaner”. A cura di Arturo Galansino, Lena Essling con Tine Colstrup. Catalogo Marsilio
Con due opere al Museo dellʼOpera del Duomo
Il sito della mostra a Palazzo Strozzi
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