Nonostante la Lega Nord di ieri e la Lega governativa di oggi, a Bergamo dal 2005 un’istituzione si adopera per integrare persone da culture e di origini diverse e richiamare giovani (italiani di seconda o terza generazione) altrimenti distanti: è la Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea – Gamec. Ne parla il direttore del Dipartimento Educazione, Giovanna Brambilla, la quale ricorda che, per essere efficaci, bisogna creare legami d’affetto. E sottolinea che la Gamec è stato il primo museo italiano a creare il “mediatore museale”, una persona con origini fuori d’Italia che appunto media tra culture e generazioni diverse dopo aver frequentato un corso, impegnativo, sull’arte.
L’occasione per parlarne è la mostra allestita fino al 9 settembre nello Spazio Zero della Galleria “Enchanted Bodies / Fetish for Freedom” a cura di Bernardo Mosqueira, vincitore del nono Premio Lorenzo Bonaldi per l’Arte – EnterPrize che dal 2003 sostiene la ricerca di un curatore under 30. Mosqueira, informa il museo, ha riunito 17 artisti accomunati dalla “lontananza dal luogo di nascita, in quanto migranti temporanei, nomadi, rifugiati, deportati, immigrati o esuli”. Giovanna Brambilla ha risposto alle domande per iscritto via mail.
Dottoressa Brambilla, da anni vi occupate di “inclusione” di persone provenienti da altri paesi che vivono in Italia o dei loro figli. Perché lo reputate necessario?
Le attività della GAMeC focalizzate sull’inclusione hanno avuto inizio nel 2005, quando siamo stati chiamati dalla scuola primaria “Fratelli Calvi” per progettare un percorso triennale interculturale; la scuola aveva già all’epoca una percentuale molto alta di bambini che provenivano da altri Paesi. Fu quell’esperienza ad avvicinarci in modo concreto al contesto delle migrazioni e dei nuovi cittadini, e a farci inserire nell’attività istituzionale del museo. Tale scelta è stata possibile per la compresenza di molti fattori: in primo luogo la GAMeC è una Onlus, il che pone questo tipo di istanze come determinanti per l’identità del museo; in secondo luogo i Servizi Educativi hanno scelto di fare proprio l’articolo 27 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, che recita: “Ogni individuo ha diritto di prendere parte liberamente alla vita culturale della comunità, di godere delle arti e di partecipare al progresso scientifico ed ai suoi benefici”. Se crediamo che esista questo diritto, la GAMeC ha il dovere di rendere questo diritto praticabile, partendo dall’assunto che il museo, come istituzione, è stato per molto tempo uno dei luoghi che hanno messo in atto una esclusione istituzionalizzata. Il terzo fattore è stato il contesto umano: la GAMeC ha sempre avuto, sia in Giacinto Di Pietrantonio, direttore fino al 2017, e in Lorenzo Giusti, attuale direttore, dei convinti sostenitori di questa scelta. La progettazione culturale, infatti, non può essere sporadica, attenta a intercettare ritorni d’immagine; essa necessita del coraggio di una convinzione radicata e di un investimento progettuale a lungo termine, in cui la qualità dei risultati conta più del calcolo numerico. L’accesso ai luoghi della cultura, la partecipazione attiva, tutto ciò che genera inclusione, contribuisce a formare la persona, a costruire un’identità consapevole, a generare legami con la collettività, ad avere una conoscenza del luogo in cui ci si trova, il che ha un senso ancora più profondo alla GAMeC le cui collezioni sono frutto di donazioni alla città, e quindi appartengono a tutti.
Vi rivolgete anche ad altre persone che incontrano ostacoli oltre ai migranti?
Questo, attenzione, vale non solo per i migranti, ma anche per altre tipologie di non pubblici: i portatori di handicap – fisico e psico-fisico – con percorsi in Lis (la Lingua dei segni italiana, ndr), con la possibilità di esplorare tattilmente le opere d’arte, con laboratori pensati per utenti di comunità di disabili, con attività per anziani in situazione di scompenso medio grave, così come per persone in situazioni borderline, o per la Casa circondariale, ma consideriamo non-pubblico anche l’universo frammentario dei giovani dai 18 ai 35 anni, grandi assenti nei musei italiani.
Come coinvolgere queste persone in modo non occasionale ma permanente?
Per coinvolgere delle persone è importante creare dei legami, ovvero un’affezione. Innanzi tutto serve fare una distinzione tra i possibili destinatari di questi progetti: la nostra attività è iniziata avendo come target di riferimento i migranti – e le loro famiglie – residenti stabilmente sul territorio, mentre è completamente diversa la progettualità rivolta a quella che attualmente sembra essere l’emergenza quantitativamente rilevante, ovvero quella dei richiedenti asilo, dei profughi e dei minori non accompagnati, che si trovano nel territorio cittadino in una situazione di stallo, di impossibilità di integrarsi con una comunità, di trovare lavoro. In questi anni siamo stati il primo museo italiano a dare vita alla figura del mediatore museale, una persona proveniente da un altro Paese che ha frequentato un corso di formazione impegnativo organizzato alla GAMeC sull’arte, ha sostenuto un esame, e ha iniziato una collaborazione con il Museo basata in primo luogo sull’interscambio e sull’arricchimento reciproco. In seguito i mediatori si sono attivati per portare connazionali in lingua madre a vedere la GAMeC o a portare altri migranti usando l’italiano come lingua franca – penso a Anita Gazner, ungherese, che insegna italiano presso la Comunità Ruah, e ha fatto del museo il luogo dove apprendere la lingua… -, azioni sostenute economicamente dal museo.
Dopo di che cosa è successo?
Successivamente sono stati attivati in pianta stabile dei progetti interculturali rivolti alle scuole. Infine abbiamo puntato sulle nuove generazioni, con il progetto triennale “My Place”, finanziato da Fondazione Cariplo, che ha dato a ragazze e ragazzi di seconda generazione la straordinaria opportunità di diventare protagonisti del museo, riscrivendone il catalogo, realizzando video per raccontarlo, e diventandone interpreti, per porgerlo ai loro pari e anche agli adulti. In tutto questo paradigmatica è stata la nostra scelta di adottare la narrazione per avvicinare le persone all’arte in modo diverso. Maria Grazia Panigada, attualmente direttrice della stagione di prosa del Teatro Donizetti, è stata incaricata da noi di formare mediatori ed educatori museali, e anche le “seconde generazioni”, su questa competenza. Ne sono nati molti progetti, come quello dei “Narratori in cerca d’autore”, che hanno incuriosito molti altri musei come Brera e gli Uffizi. La narrazione, infatti, tocca le corde del visitatore, lo attira verso l’opera, annoda fili, rende comprensibile e percorribile l’idea che il museo sia un luogo di cui sentirsi custode, amico, interprete. In questo modo il museo diventa un luogo dove ritornare: ovviamente i primi percorsi dedicati a migranti avevano come primo obiettivo a volte anche il semplice conoscere la strada, comprendere che nel museo non si chiedono documenti, che si può accedere con i bambini. Poi, una volta rotto il ghiaccio, sono iniziati percorsi per mamme con bambini piccoli pensati da Alzira Da Costa Bahia (portare i bambini era importante, perché molte mamme sono vincolate all’accudimento dei figli più piccoli), ma anche percorsi con donne che non si erano mai mosse sul territorio e che una nostra mediatrice – Maida Ziarati – andava a prendere casa per casa per fare con loro la strada. Più strutturati sono stati i percorsi rivolti alle persone provenienti dall’America Latina, condotti da Julio Alterach, Almir San Martin. Differenti sono le visite narrate in museo condotte in questi mesi dai ragazzi e dalle ragazze di seconda generazione, rivolte ai compagni, ma anche alle famiglie di provenienza, a segno della competenza acquisita.
È necessario o no rivolgersi alle “comunità” come blocchi in base alla provenienza?
L’idea di comunità è spesso fuorviante: spesso quelli che istituzionalmente sono indicati come i referenti delle comunità non sono sentiti dai loro connazionali come pienamente legittimati. Certo, ci sono dei canali per intercettare attenzione, ma è più utile rivolgersi a luoghi e gruppi di aggregazione, come i Giovani Mussulmani, i phone center, le scuole di lingua e le comunità religiose – penso ai cinesi e alla loro pratica di iscrivere i figli a scuole di cinese e alla loro frequentazione del culto evangelico -, ma sono utili anche le parrocchie o le scuole.
Verso le aperture ad altre culture c’è una manifesta e perfino aggressiva ostilità come ha potuto verificare di persona mesi fa il direttore del Museo Egizio di Torino Christian Greco attaccato dalla leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni. I musei italiani dovrebbero invece fare di più in questa direzione oppure fermarsi come pensano alcuni politici?
Se il museo – qualsiasi museo, egizio, d’arte, storico, scientifico… – sceglierà l’arrocco, prenderà la strada che lo porterà ad essere una torre d’avorio, abdicherà alla sua funzione di prezioso e insostituibile vettore culturale; se non genererà una staffetta virtuosa coinvolgendo le giovani generazioni in un passaggio di testimone diventerà un deposito deserto. La chiusura ad altre culture lo trasformerebbe in uno sterile salotto autoreferenziale, in un’enclave ideologica impermeabile sotto la bandiera di una esclusione legalizzata.