Negli ultimi tempi bazzicare i social vuol dire letteralmente navigare tra una marea di contenuti sempre più realizzati tramite uso di IA. Il dilagare di questo fenomeno si è persino meritato la definizione di Ai slop: il richiamo è all’aggettivo “sloppy”, nell’accezione di “trascurato, superficiale”, e che traslitterato in questo senso starebbe per “sbobba”.
Può anche leggersi come acronimo, ed allora varrebbe per “Spammy, Low-quality, Over-Produce”, cioè spam, di bassa qualità, prodotta in quantità esorbitante. Esattamente ciò che sono tutti quei contenuti che rimbalzano da un social ad un altro. Si tratta soprattutto di video ed immagini, improbabili, senza senso, che tentano e a volte riescono a strappare una risata. Va oltre l’Italian Brainrot, vicino piuttosto alla teorizzazione di bullshit del filosofo Harry G.Frankfurt, ciò che va oltre il riguardo per la verità, indifferente all’ontologicamente vero e falso.
La produzione di questi contenuti slop avviene tramite prompt su sistemi come Nano Banana (IA generativa di Google), Sora, ChatGpt e simili. Diversi di queste IA generative sono gratuite, facili da approcciare e senza limitazioni nell’uso. Se Spotify nell’ultimo anno ha rimosso dalla piattaforma ben 75milioni di brani considerati spam, Instagram, TikTok e Facebook hanno invece nell’ultimo anno implementato strumenti di IA che facilitano la creazione di contenuti (contrassegnati con l’etichetta AI). YouTube fuori dal’Unione Europea da persino modo di realizzare Shorts di pochi secondi tramite Veo3.
È implicito che l’uso e l’abuso di tutti questi strumenti produca la marea di slop AI a cui siamo sottoposti, eppure non tutto è sempre necessariamente male. Per due ragioni principali. Come Daniele Signorelli scrive su Wired, intanto ogni epoca ed ogni sistema di comunicazione ha avuto la propria slop, appunto la propria sbobba. Soprattutto quanto lo strumento è ancora alle prime armi e deve perfezionarsi, e diventa di uso comune: è successo ad esempio con la nascita della stampa a caratteri mobili di Gutemberg che venisse all’inizio guardata con sospetto, ma anche nel 1700 con la diffusione delle cofeehouse a Londra spopolò una letteratura “grubstreet”, da una via della metropoli inglese, piena di tipografie ed alloggi economici occupati da aspiranti scrittori. Lì si producevano pamphlet e giornalismo di scarsissima qualità. Ed ecco servita la slop.
E tornando all’oggi ed al secondo luogo delle nostre motivazioni di cui sopra, lo tsunami di contenuti anche “brutti”, e a volte fake, a volte no, può allenarci a capire cosa è di valore, e cosa no, e cosa è reale e cosa no. È successo ad esempio con la fotografia, alle origini considerata inferiore all’arte pittorica, perché meramente meccanica, eppure poi assurta essa stessa ad arte. Certo non è facile distinguere, in queste fasi produttive, soprattuto nel caso delle produzioni AI, cosa sia o meno reale.
Un punto oggi focale dell’uso dell’IA anche a causa delle deep fake o addirittura dei deep nude. E più banalmente può accadere che un video di gattini che impastano il pane possa lasciarci perplessi. Eppure erano perplessi anche i primi spettatori della celebre pellicola dei fratelli Lumière con l’arrivo del treno alla stazione, che provocò sgomento e spavento. Forse il paragone non regge, o forse si, ma ce lo diranno solo i posteri.
Quest’anno però questi nuovi mezzi di produzione comunicativa si sono distinti per essere usati anche come strumenti della squallida propaganda politica di Donald Trump. I video della riviera di Gaza, e quelli contro le manifestazioni No King, hanno spopolato proprio non perché potessero confondersi con la realtà, ma probabilmente priori per la loro componente “trash”, nel secondo caso arginando e contrastando proprio l’ondata anti Trump.
Insomma, la questione IA va ben oltre le produzioni slop, skidibiboppy, brainrot e pappagalli che fanno cose. E dobbiamo imparare a discernere e nel caso a nostra volta a condividere e fruirne consapevolmente.
