di Antonio Salvati
Frequentemente si dibatte sulla crescente marginalizzazione del pensiero storico nel dibattito pubblico contemporaneo. Lo storico Agostino Giovagnoli ha più volte sottolineato che la conoscenza storica non è cosa del passato. In un mondo sempre più complesso, sotto la forte spinta del presentismo, è invece sempre più necessario fare storia e leggere storia. In un mondo così articolato e spaesato, ci vuole più cultura e più cultura storica.
È sempre urgente e necessario domandarsi fattivamente come divenire divulgatori efficaci della storia. E, soprattutto, come trasmetterla a tanti e. soprattutto, ai più giovani che avvertono sempre di più l’effetto grave della percezione dell’inutilità della storia, similmente a quanto accade alla politica. La disciplina della storia e la stessa pratica politica – come ha dimostrato il crescente fenomeno dell’astensionismo nelle recenti elezioni politiche – appaiono inutili, inadatte di fronte alle velocità delle trasformazioni impresse dalla globalizzazione.
Eppure se diamo un’occhiata a quanto accade nei social, soprattutto su Facebook ma non solo, rileviamo che si discute tanto di storia, spesso intorno ai più diversi e a volte impensabili argomenti. Ha studiato la questione lo storico Francesco Filippi, autore del volume Guida semiseria per aspiranti storici social (Bollati Boringhieri 2022, 128 pagine, 10 euro), noto al grande pubblico dopo aver pubblicato Mussolini ha fatto anche cose buone (Bollati Boringhieri, 2019). Filippi analizza il livello assai pessimo dei forum storici che imperversano sul web. In questi forum si incontrano anche individui appassionati sinceri e anche informati, ma – avverte Filippi – privi degli strumenti storiografici necessari al laborioso farsi della storia. Evidentemente non è un male discutere di storia. Tutt’altro. Il guaio è che ciò avviene in modo tale che si finisce per usare la storia «a fini egotici o autoaffermativi, forzando, manipolando, strozzando la Storia stessa». Certo la comunicazione social non aiuta, solitamente tutto oppone e polarizza. C’è poi l’uso distorto del pronome noi: «Avete presente quando uno dice “Noi (romani) che con le nostre legioni abbiamo conquistato la Britannia”, oppure “Noi (italiani) che abbiamo scoperto l’America”? Ecco. Usare quel noi è un travestirsi di passato per stare nel presente con più autorità e al contempo permettersi di creare una categoria alternativa a questo noi, un loro, altrettanto escludente». Accade anche di citare testimonianze come se una singola voce rappresentasse tutte le voci. «Pensiamo a quante volte, nelle discussioni sul fascismo, abbiamo letto commenti tipo “taci e leggiti De Felice!”: a dare torto all’avversario non è l’interlocutore, ma uno dei più grandi storici del periodo. Ma così questi oggetti storici diventano dei simboli più che dei vettori di significato».
Non è agevole per gli storici di professione misurarsi col mondo online. Si può scivolare nell’errore di sbagliare atteggiamento verso chi legge, assumendo un atteggiamento supponente o linguaggi di non immediata comprensione. Tuttavia, innegabilmente il passato è argomento di interesse molto popolare.
Lo dimostra la vicenda di Alessandro Barbero, professore di Storia medievale all’Università del Piemonte Orientale, divenuto negli ultimi vent’anni una celebrità del web grazie all’enorme successo delle sue conferenze postate su YouTube. In questo momento, è il più popolare storico nel Paese, un eccellente narratore, grazie alle sue innegabili capacità divulgative. Diventato un personaggio di caratura nazionale, è conosciuto da un pubblico ampio e non specialistico, senza sottomettersi alle logiche banalizzanti e agli stereotipi dei talk show o dei social network.
Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna, giustamente ricorda che è facile dimenticare la lezione della storia o credere di potere ignorarla, di non accettare la sfida di una conoscenza complessa dei fenomeni. E come sappiamo «quando questo avviene siamo destinati a ripetere le sofferenze che la storia contiene». Spesso la cronaca e le risposte facili – ricorda il cardinale – hanno la meglio sulla riflessione, «sulla memoria, sul rigore della ricerca, sul non strumentalizzare operando letture irrazionali, fantasiose, solo per confermare la propria idea o esperienza, uscendo dalla complessità e dal tempo». Tuttavia, indubbiamente «senza storia viviamo fuori dal tempo, come perennemente schiacciati sul presente e quindi anche incapaci di comprenderlo».
Tornando a Barbero, siamo certamente in presenza – come ha sostenuto Michele Trabucco – di uno storico «che ha la capacità di scorrere tra le diverse epoche del passato e agganciarle al presente, il suo “andirivieni” tra passato e presente. (…) I personaggi del passato sono presentati in modo da potersi rispecchiare in essi, poiché ne sottolinea i contrasti, le similitudini con l’uomo d’oggi e perché li dipinge con estrema umanità». Ascoltandolo si ha la percezione che «la distanza tra il nostro mondo, le nostre prospettive e i nostri sguardi e quelli del passato, degli uomini e delle donne, sembrano annullate o almeno fortemente accorciate. Per lui è importante capire la storia perché ci aiuta a capire noi stessi, le bestie che siamo noi. Ma non è un modo per predire il futuro. Rivela la funzione educativa e sociale della storia. Ne è profondamente convinto».
Andrea Riccardi recentemente ha acutamente osservato che la «storia aiuta a vivere nel presente e ad essere consapevoli di esso, senza voltarsi indietro o avere nostalgia del passato, magari idealizzandolo. Una storia che va studiata e analizzata sotto i suoi profili diversi. Sì, il punto di partenza è nella storia. La storia che scorre è qualcosa di molto diverso da un presente piatto, ridotto a sé, senza profondità… Certo, la storia non è magistra vitae: non insegna come vivere, ma certamente aiuta a leggere il presente e a discernerlo nella sua complessità. È difficile e illusorio vivere da analfabeti della vita e della storia, soprattutto in tempi difficili come i nostri. Un vescovo siciliano, Cataldo Naro, uno storico degli inizi del xx secolo, ha espresso lucidamente questa intuizione: la storia è maestra” non nel senso che ci dà delle precise indicazioni per il nostro presente, ma perché ci rende sapienti per sempre”».
La globalizzazione sembra poter fare a meno della storia, potremmo dire anche della cultura. Non a caso Olivier Roy parla di deculturazione e di «santa ignoranza», come rifiuto della cultura, della storia, della memoria da parte di società e religioni emotive o fondamentaliste. Ma l’ignoranza non è – ricorda Riccardi – soltanto assenza di una cultura: significa, alla fine, subire modelli culturali e antropologici proposti dallo “spirito del tempo”.