di Marcello Cecconi
Trentadue anni fa a Timisoara iniziava la rivoluzione contro Ceauşescu
La notte fra il 15 e 16 dicembre 1989 iniziava la prima e unica rivoluzione violenta nel blocco sovietico dopo “il pacifico” abbattimento del muro di Berlino avvenuto appena un mese prima. Il terremoto che si paventava dopo la perestrojka gorbacioviana, all’interno dell’ormai scardinata cortina di ferro, iniziava proprio dalla Romania e lontano dalla sua capitale. Partiva da Timisoara, città della regione del Banato ai confini dell’Ungheria e del cui Regno un tempo faceva parte.
La discesa in piazza è contro il tentativo del governo di far trasferire il sacerdote protestante dissidente, László Tőkés, difensore coraggioso dei diritti della minoranza ungherese. La protesta fu repressa dalla Securitate con spari sui manifestanti ordinati da Ceauşescu direttamente dall’Iran dove era in visita ufficiale. In due giorni ci furono una settantina di morti e centinaia di feriti.
Il balcone di Timisoara da dove partì la protesta
Ceauşescu, rientrato da Teheran, e forse consigliato dai suoi fidati che stavano tramando alle sue spalle, tentò di riprendere le redini della nazione il 21 dicembre, all’ora di pranzo, arringando una folla immensa che si era riunita nella piazza Gheorghiu-Dej di Bucarest. Si racconta di colpi di armi da fuoco ai lati della folla che ondeggiò paurosamente, si sentirono spari e il panico montò. Ceausescu e la moglie Elena rientrarono nell’edificio preoccupati e non riuscirono più a controllare la piazza. La televisione rumena interruppe le trasmissioni e le truppe speciali antisommossa cercarono di sedare ogni assembramento nel centro della capitale sempre più invaso dai rivoltosi.
Il 22 dicembre Ceauşescu e la moglie fuggirono in elicottero verso la loro casa di campagna ma il pilota, giustificandosi con il rischio di essere bersaglio della contraerea in allerta, atterrò in una fattoria a cinquanta chilometri dalla capitale dove, dopo un tentativo di fuga in auto, i due furono presi dalla polizia. La conferma che i ribelli a Bucarest avevano avuto la meglio sui governativi autorizzò i poliziotti alla consegna della coppia all’esercito e il giorno di Natale, in una scuola di Târgoviște, un tribunale militare improvvisato li condannò a morte con sentenza immediatamente eseguita.
Eppure il dittatore era riuscito a farsi una buona reputazione in Occidente proprio perché sembrava scegliere una via al socialismo più umana e personalizzata e non troppo dipendente dall’Unione Sovietica. Nel 1968 fu l’unico ad avere il coraggio di dichiararsi contrario alla repressione militare della cosiddetta “Primavera di Praga” e nel 1973, addirittura, il nostro Presidente della Repubblica, Giovanni Leone, assegnò a lui e alla moglie l’onorificenza di Cavaliere di Gran Croce. Mentre lui viaggiava libero e apprezzato nel mondo occidentale, niente trapelava della mancanza di libertà e della situazione di indigenza in cui costringeva il popolo.
Ricordi personali mi riportano all’agosto del 1988, un anno prima della rivoluzione, quando potevo toccare con mano l’estrema miseria del paese. Faceva impressione vedere una città turistica come Mamaia, sul Mar Nero, che alle nove di sera chiudeva quei pochi sfornitissimi bar e ristoranti. Contemporaneamente si spengevano tutte le luci della città irretendo i pochi passanti e turisti in un buio silenzioso e torbido che faceva già presagire la fine della pazienza popolare. I negozi preferivano il baratto a quella moneta che non serviva più a comprare niente, le pompe di benzina sceglievano a chi e quanto carburante dare e in cambio di che cosa, camerieri e cuochi erano spinti a portarsi a casa metà della fettina di carne destinata al turista, unica via per dare qualche proteina ai propri figli.
Che belli i film della Wertmuller
In questi giorni, 47 anni fa, usciva nelle sale italiane Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto. Indubbiamente uno dei film più noti di Arcangela Felice Assunta Wertmuller von Elgg Spanol von Braucich, semplicemente Lina Wertmuller, la regista da poco scomparsa.
La bionda Raffaella (Mariangela Melato), era l’industriale lombarda che amava circondarsi di amici, ricchi come lei, durante le vacanze a bordo di un bellissimo yacht. Gennarino (Giancarlo Giannini), comunista ruspante è il marinaio siciliano dello yacht che soffre la “padrona” con quel suo caratteraccio e che pretende anche di promuovere le proprie idee femministe e ambientaliste. Il naufragio su un’isola deserta del Mediterraneo durante una gita in gommone cambia le carte in tavola. Qui il marinaio siciliano prende il sopravvento spadroneggiando la donna e così facendo la seduce. Un momento forte e fuggente che l’arrivo dei soccorritori e il ritorno sulla terra ferma in Italia fecero scomparire in un attimo. La distanza sociale vincerà sulla passione.
Un’immagine dal film “Travolti da un insolito destino nell’azzurro del mare di agosto”
La Wertmuller, cresciuta a pane a teatro, dopo aver aiutato Fellini in La Dolce Vita e 8 e mezzo, trovò il suo percorso personale e seppe raccontare un’Italia verace, sincera fino alla crudeltà, cosa che non eravamo abituati a vedere sullo schermo. Noi giovani di provincia, stanchi delle “Giovannone coscialunga”, svezzati da poco da L’ultimo tango a Parigi e un po’ storditi dalla complessa “trilogia della vita” pasoliniana, fummo attratti dalla Wertmuller. Con Mimì metallurgico ferito nell’onore (1972), Film d’amore e d’anarchia (1973), ci eravamo avvicinati a lei e ci riconoscevamo in quel suo modo di saperci consegnare l’esasperazione dei contrasti politici economici e sociali di allora. Non nascondeva critiche sociologiche ma senza mai tradire la commedia all’italiana marcata da quell’impronta sognatrice ereditata dal suo maestro Fellini.
Come dicevamo, in Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto, la coppia Giannini-Melato, già consolidata nei precedenti film, dava il meglio di sé. La critica non era tutta d’accordo di fronte ai populistici stereotipi della lotta di classe ma il pubblico ne fu conquistato facendo restare a lungo il film nell’alta classifica degli incassi della stagione 1974-75, prima di consegnarlo al cult mondiale. Una curiosità: nel 2002 fu tentato un remake da Guy Ritchie Travolti dal destino (titolo originale Swept Away), interpretato dall’allora moglie del regista Madonna e da Adriano Giannini, figlio di Giancarlo. E nonostante tante celebrità fu un flop colossale.
Il cantautore statunitense che cinquant’anni fa ebbe successo in Italia cantando Van Gogh
Cinquant’anni fa, era proprio il 16 dicembre 1971, Don McLean esce con American Pie, una delle canzoni più lunghe di sempre. Il brano, della durata di quasi dieci minuti, fu inciso nel 1971 e pubblicato lo stesso anno sull’album omonimo dal cantautore folk rock statunitense. Il brano si riferisce al disastro aereo del 1959 in Iowa in cui persero la vita tre giovani autori di rock’n’roll che si stavano recando a Fargo per un concerto. Erano Buddy Holly, J.P. Richardson e il giovanissimo Ritchie Valens. autore del grandissimo successo de La Bamba, il primo brano cantato in spagnolo ad arrivare ai vertici delle classifiche americane.
Don McLean oggi
American pie riscosse rapidamente un formidabile successo prima in Usa e Australia portando McLean in vetta alle classifiche di tutto il mondo nonostante la lunghezza del brano che, per le radio di allora, poteva rappresentare un ostacolo. La melodia era accattivante e il ritornello “The day that music died”, un modo di dire rimasto nella storia proprio per ricordare quell’incidente aereo. Tanti, compreso Madonna, hanno tentato di farne una cover.
Per chi come me, che all’inizio dei Settanta, non conosceva ancora Mclean, l’occasione arrivò nel 1973 con la canzone Vincent, che faceva parte dello stesso album concept American Pie e che divenne la sigla di Lungo il fiume e sull’acqua, andato in onda nel gennaio 1973. Era uno sceneggiato televisivo sul Programma Nazionale, tratto dal romanzo di Francis Durbridge, The Other Man, e interpretato da Sergio Fantoni e Laura Belli e che ebbe un successo di pubblico strepitoso.
La canzone ci conquistò tutti nonostante la difficoltà di interpretare immediatamente il testo inglese. Ci piacque talmente la melodia che arrivammo perfino a indagare chi era quel Vincent. Facile, ce lo spiegò direttamente McLean: “Nell’autunno del 1970 lavoravo insegnando musica in una scuola. Ero seduto in veranda una mattina, leggendo una biografia di Van Gogh, e improvvisamente ho capito che dovevo scrivere una canzone per spiegare che non era pazzo. Aveva una malattia e anche suo fratello Theo. Questo lo rese diverso, nella mia mente, dalla consuetudine generalmente definita di “pazzo”, perché fu rifiutato da una donna”. Insomma il cantautore americano simpatizzava con il gesto estremo di Van Gogh dicendo al pittore che così aveva fatto qualcosa di sano in un mondo folle.
Ma a noi piaceva questa canzone per la sua semplicità e per quella voce melodiosa che si accompagnava a una chitarra acustica e che solo nel finale si allargava in una soffusa parte orchestrale. Eppure canzoni così semplici allora potevano volare altissime in classifica, ma erano altri tempi, addirittura per una canzone così potevamo commuoverci. Incredibile.
Vincent