di Marcello Cecconi
Il premio Nobel per la Pace 2021 non è una riflessione diretta sulle guerre e sulle troppe violenze, che pur continuano a scuotere il nostro pianeta, ma su uno dei tanti effetti o cause di queste ultime, la libertà di stampa. Uno dei due premi è andato alla giornalista filippino-americana Maria Ressa e, insieme all’altro andato al reporter indipendente russo, Dimitry Muratov, è la risposta del Comitato che ha sede presso l’Istituto Nobel norvegese. Le Filippine non brillano certo per libertà di stampa tanto che occupano la 134esima piazza, su 180, nella classifica degli indici compilata e pubblicata da Reporter senza frontiere.
La classica telefonata da Oslo che annuncia il Nobel e la reazione di Maria Ressa
Chi è Maria Ressa
Maria Ressa, nata nelle Filippine nel 1963, a dieci anni si è ricongiunta negli Stati Uniti con la madre, che là si era trasferita subito dopo la morte del padre naturale di Maria, sposando un italo-americano che l’ha adottata, dandole così cognome e nazionalità. Ha frequentato la scuola pubblica Toms River High School North nel New Jersey, dove intanto si erano trasferiti i genitori e, poi, studiato biologia molecolare e teatro alla Princeton University dove si è laureata. Ha poi ottenuto un Fulbright Fellowship per studiare teatro politico presso l’Università delle Filippine Diliman.
Maria Ressa ha iniziato poi la carriera di giornalista fino a diventare amministratrice delegata del sito web di notizie Rappler dove si è distinta proprio per le sue inchieste coraggiose. Ha avuto molti riconoscimenti come l’Overseas Press Club Award per il miglior documentario, il National Headliner Award per Investigative Journalism, una nomination agli Emmy per Outstanding Investigative Journalism. Nel 2016 è stata elencata da Kalibrr come uno delle otto personalità più influenti e potenti nelle Filippine e, l’anno dopo in qualità di CEO di Rappler, ha ricevuto il Premio Democrazia del 2017 assegnato dal National Democratic Institute. Nel giugno 2018 Ressa è stata nominata vincitrice del Golden Pen of Freedom Award della World Association of Newspapers per il suo lavoro con la testata Rappler.
“Per salvaguardare la libertà di parola, una condizione fondamentale per la democrazia e la pace” la motivazione ufficiale del premio, che è arrivato per tutta la sua carriera ma soprattutto per la determinazione nel condurre inchieste, nella sua patria d’origine, relative alle esecuzioni extragiudiziali di cui si è reso protagonista il presidente delle Filippine, Duterte, nella battaglia intentata contro spacciatori di droga e tossicodipendenti. “Non abbiamo fatto altro che il nostro dovere di giornalisti, eppure io ho subìto undici processi nell’ultimo anno e mezzo. Ho dovuto pagare una cauzione otto volte in tre mesi. Sono stata arrestata due volte e detenuta una volta», disse al New York Times la Ressa nell’ottobre del 2019 e che, un anno prima, si era gia vista dedicare la copertina del Time come “guardiana della verità”.
Chi è il Presidente Duterte
Rodrigo Roa Duterte, detto Rody, sedicesimo presidente della Repubblica delle Filippine e primo originario dell’isola di Mindanao, non ha avuto timore a pubblicizzare la sua dura e illegale battaglia contro la droga come l’Olocausto moderno e, per questo, autodefinendosi “l’Hitler delle Filippine”. Un ruolo così autoritario che è stato dirompente in patria e sulla scena politica mondiale con la enorme eredità, appunto, di quella guerra alla droga che lo ha portato ad essere indiziato alla Corte dell’Aia per gravi violazioni dei diritti umani. Più di seimila, e sono numeri comunicati dal suo governo, i sospetti spacciatori che sono stati uccisi, senza nessun processo, dal 2016, inizio del mandato di Duterte, all’aprile di quest’anno.
L’Onu ha calcolato, già nel giugno del 2020, più di ottomila morti accertati per le esecuzioni sommarie di sospetti risultati poi innocenti, fra i quali una settantina di bambini con il più piccolo di appena cinque mesi. Il ruolo di “Punisher”, Duterte, se lo conquistò sul campo come sindaco per decenni di Davao, città capitale della sua isola di Mindanao, quando dal 2001 al 2016 aveva creato gli squadroni della morte, integrati nella polizia. Allora fu visto come un salvatore in una regione dove per decenni operavano bande di mafiosi e i guerriglieri comunisti e islamici del famigerato gruppo Abu Sayyaf.
Proprio in questi giorni, con la sua solita mossa a sorpresa, Duterte ha annunciato il ritiro dalla politica, rinunciando a presentarsi per la poltrona di vicepresidente nel 2022, contrariamente a quanto aveva detto in agosto. La Costituzione non gli permette un secondo incarico e allora, questa nuova mossa, fa sospettare che la prossima potrebbe essere il tentativo di dare inizio alla dinastia dei Duterte in politica nazionale. La figlia Sara, a pari del padre, sindaca di Davao da diverse legislature, ha ripresentato la sua candidatura alla guida della popolosa città meridionale ma, visti i sondaggi di gradimento di cui gode in tutto il Paese, la mossa di papà Rodrigo pare essere propedeutica alla candidatura della figlia nel palazzo presidenziale Malacañang di Manila.