«Come ho detto l’invasione di Praga fu la goccia che fece traboccare il vaso. Fu lì che la maggioranza di noi giovani chiudemmo definitivamente con l’Unione Sovietica e con l’idea che potesse essere quello il nostro punto di riferimento». È un passaggio chiave di quel che è stato il comunismo nel nostro paese e queste poche righe dicono moltissimo su una storia complessa. Sono parole di Sergio Staino, il creatore di “Bobo”, della sua famiglia partecipe e degli amici, autore di colui che da qualche decennio nel personaggio a fumetti impersona i travagli, i dubbi, le contraddizioni, le speranze, le tante delusioni della sinistra italiana e, nello specifico, di chi è stato “extraparlamentare”, poi a fianco e nel Partito comunista italiano e ne ha seguito tutte le vicissitudini.
Giusto per ricordarlo: il Pci fu fondato il 21 gennaio a Livorno dalla scissione con il Partito socialista italiano. A cent’anni di distanza Staino ha appena pubblicato il libro “Storia sentimentale del P.C.I. (anche i comunisti avevano un cuore)” (Piemme, da Mondadori Libri, pp. 169, € 17.50, anche in ebook). Di questo racconto pubblichiamo un estratto su gentile concessione dell’autore dal quarto capitolo perché qui Staino ricostruisce efficacemente come tanti giovani italiani, di sinistra, vissero i giorni della “Primavera di Praga” nel 1968, quando i cecoslovacchi con Dubcek provarono a creare un “socialismo dal volto umano” e i carri armati sovietici stroncarono quel tentativo.
Estrapoliamo dunque un brano dalle pagine 64-66 non senza prima ricordare qualche informazione utile: Staino è nato nel 1940 a Piancastagnaio, nel senese, in una famiglia di origini contadine e vide davvero il padre spedito a combattere solo nel 1945; disegnatore, scrittore, regista, operatore culturale, dal 1982 è stato vignettista dell’Unità dove ha diretto l’inserto satirico settimanale “Tango” nel 1986-88 e il giornale fondato da Antonio Gramsci dal settembre 2016 fino alla chiusura del 2017; oggi con il suo “Bobo” collabora con La Stampa e con Avvenire; vive a Scandicci, alle porte di Firenze; infine, come riassume l’autore nella prefazione, il libro «è una storia parziale e non ha la pretesa di ricostruire alla perfezione gli accadimenti storici. È una storia d’amore personale, a tratti assai stramba e picaresca, che però somiglia a quella di tanti altri. Una storia, quella del comunismo italiano, tanto forte da far tremare i polsi».
Sergio Staino: Mezzanotte a Praga
Il partito cecoslovacco guidato da Alexander Dubcek tentò nella seconda metà degli anni Sessanta di instaurare una serie di liberalizzazioni senza voler assolutamente distruggere il ruolo del Partito comunista e tanto meno la ferrea amicizia con Mosca. L’esperienza fu chiamata “socialismo dal volto umano” e quest’esperimento fu subito ben visto e caldeggiato dalla maggioranza dei dirigenti del partito italiano seguiti da tutti gli iscritti. Anche in Italia era partita una gran voglia di democrazia per questi paesi dalla disciplina di partito troppo rigida e a volte addirittura oscurantista. Dubcek aveva tutte le nostre simpatie e la fine di questa speranza ci costrinse a rivedere profondamente le scelte internazionali fatte fino a quel momento.
In pratica accadde l’esatto opposto di quello che era successo 12 anni prima a Budapest. Segretario del Partito italiano era allora Luigi Longo ma, al suo fianco come stretto collaboratore, c’era il giovane Enrico Berlinguer e forse questo fece proprio la differenza. Quell’anno il segretario della federazione giovanile fiorentina era un mio carissimo amico, Marco Salvestrini, che tra l’altro era stato in viaggio con noi a Mosca. Era un giovane di grande simpatia e bravura innamorato perso di una compagna di nome Daniela. Era il suo punto debole per cui noi lo prendevamo sempre in giro anche perché Daniela non ne voleva sapere nulla di lui. Con il suo grande entusiasmo politico aveva promosso molte manifestazioni giovanili compresi i raduni con scontri di polizia davanti al Consolato americano in difesa del popolo vietnamita. Erano i giorni in cui gli americani bombardavano senza tregua quel paese martoriato e, addirittura, si paventava il bombardamento delle dighe di Danang. Una cosa che avrebbe comportato un vero genocidio. Io disegnai per lui alcuni manifesti con cui riempimmo i muri di Firenze. Quando arrivò il conto della tipografia il Partito lo accusò di essere pericolosamente dispendioso e lo destituì dall’incarico. Come sempre accade in certe situazioni burocratiche la destituzione fu mascherata da promozione e, per questo, mandato a lavorare nella splendida e romantica città di Praga dove esisteva una nostra radio con lo stesso nome. “Radio Praga” era la nostra informazione alternativa alla Rai. Quando c’erano le elezioni in Italia i primi risultati li ascoltavamo sempre su quella radio sicuri che fosse più informata e corretta della radio nazionale.
Nel 1967 quando ci fu la terribile guerra dei sei giorni, tra l’Egitto e Israele, l’avevamo ascoltata per notti intere nella speranza che annunciasse la vittoria finale di Nasser. Sì, eravamo ferocemente antisraeliani, anche se, per far questo minimizzavamo la presenza di nazisti tedeschi tra le file degli arabi. In pratica, come giovani comunisti, eravamo cresciuti con una forte educazione filopalestinese e ben poco sapevamo della storia dello stato di Israele e nulla (colpa del PCI) delle incredibili espulsioni di ebrei comunisti dagli stati socialisti dell’est Europa. Tutto era visto in chiave di una potente lobby imperialistica di stampo ame ricano e quindi, mettendosi contro di essa, eravamo sicuramente nel giusto. Marco era a Praga quel fatidico agosto del 1968. Di più: era a Praga con Daniela, finalmente l’aveva vinta lui e l’amore era esploso tra i due anche se, forse, nel posto sbagliato. Si trovava nella camera di un albergo posto proprio in piazza San Venceslao e lui, raggiunto il suo obiettivo amoroso, doveva sentirsi particolarmente forte e sicuro di sé. Quando sentì i cingolati in piazza, si affacciò dalla finestra dell’albergo e vide i carri armati russi che stavano invadendo Praga, trovò del tutto naturale rivestirsi in fretta e correre alla radio per fare un appello alla resistenza contro i russi! Che miracoli che fa l’amore! Noi lo sentimmo sulla Rai con l’annunciatrice che specificava di aver raccolto un appello di un italiano e dalla voce capimmo che era lui. Quell’appello fece il giro del mondo facendo imbestialire i sovietici. Marco dovette rifugiarsi all’Ambasciata italiana perché i russi cercavano l’italiano che aveva fatto questo appello, poi tornò in Italia impaurito con i documenti falsi che gli aveva procurato l’Ambasciata.
Come ho detto l’invasione di Praga fu la goccia che fece traboccare il vaso. Fu lì che la maggioranza di noi giovani chiudemmo definitivamente con l’Unione Sovietica e con l’idea che potesse essere quello il nostro punto di riferimento.
Piemme da Mondadori Libri S.p.A.
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