di Rock Reynolds
Quaranta lunghi anni. Chi non ha mai tentato di mettersi nei panni dei familiari di uno degli innocenti che, il 2 agosto 1980, furono spazzati via dalla furia criminale di chi aveva pensato di seminare il terrore in un paese mai del tutto al riparo dalla ricerca dell’uomo forte e da una voglia di “sicurezza” liberticida? Ritenere che una bomba, l’ennesima, anche se stavolta concepita per fare ancor più danno e seminare ancor più morte, potesse cambiare il corso della storia democratica dell’Italia, ricacciando indietro le lancette della storia di una quarantina d’anni almeno, era forse ancor più folle dello stesso piano criminale. Eppure, in qualche modo, quella bomba il tempo lo fermò: quello dell’orologio della stazione di Bologna, bloccatosi tragicamente sulle 10.25, ora dell’esplosione.
Un attimo quarant’anni – Vite e storie della strage alla stazione di Bologna (Jaca Book, pagg 195, euro 20) è l’accorato tentativo di ricostruire un quadro complicato ma sempre più nitido e, al tempo stesso, di restituire dignità alle vittime. A compiere l’impresa con successo è Daniele Biacchessi, scrittore, giornalista, conduttore radiofonico, che torna davvero sul luogo del delitto, è il caso di dire, a distanza di vent’anni dal suo primo libro sull’argomento, con un testo lucido ma velato di quella tristezza che trasmette la passione necessaria per non farne una mera cronaca statistica.
Vite spezzate, vicende personali consegnate perdutamente all’oblio della storia, memorie calpestate di vittime innocenti, insomma, una vergogna nazionale, una macchia sulla coscienza del nostro popolo. Ecco cos’è stata quella strage.
Lei hai già scritto due libri sulla strage di Bologna. Ricorrono ormai i 40 anni da quel tragico giorno. C’era davvero bisogno di un altro libro?
Sì, perché il mio secondo libro, del 2001, si intitolava Un attimo… vent’anni. Insomma, ne mancavano venti, compreso il processo Ciavardini, il processo contro Cavallini, il processo ai mandanti e l’opera instancabile dell’Associazione dei familiari delle vittime nelle piazze.
Lei parla di “neutralizzazione morale”, una sorta di cancellazione dei diritti delle vittime e delle loro famiglie, delle più elementari richieste di chi tanto ha patito. Cosa intende esattamente?
Significa mettere in un cassetto le più elementari richieste da parte delle parti lese. Per esempio la storia di Danila Tinelli – madre di Fausto, ucciso insieme all’amico Iaio Iannucci per depistare l’inchiesta sulla strage di Bologna – donna eccezionale di oltre ottanta anni, che per tanto tempo ha cercato la verità per suo figlio, per poi essere considerata una rompiscatole e, addirittura, un’opportunista. Qualcuno scrisse che faceva ciò che faceva solo per incassare le indennità previste: una vera e propria infamia. Un processo comune a tutte le vittime dello stragismo italiano: quando lo Stato non riesce a neutralizzarti, inizia a denigrarti.
Sappiamo quasi tutto dei depistaggi messi in atto da apparati “deviati”. Ma cosa può dirci di una sorta di creazione preventiva di ostacoli al corso della giustizia, per esempio attraverso l’uccisione del giudice Amato?
Diffido di chi parla di servizi segreti deviati perché i servizi segreti sono nominati dal presidente del consiglio, che nel 1980 era Francesco Cossiga. I capi dei servizi erano tutti iscritti alla P2, da Santovito a Musumeci, a Francesco Pazienza. L’uccisione del giudice Amato è una delle prove lampanti di come i Nar non fossero affatto degli spontaneisti: avevano gambizzato le donne di Radio Città Futura, avevano lanciato bombe a mano in una sezione del Partito comunista, provocando una trentina di feriti, avevano realizzato un fallito grosso attentato dinamitardo dietro Palazzo Marino. Il giudice Amato, un magistrato pieno di passione e zelo, forse si avvicinò troppo ai Nar, conoscendone nomi e modalità d’azione, dopo aver seguito la controinformazione fatta da un giovane militante di Autonomia Operaia che si chiamava Valerio Verbano, ucciso nella sua casa. Verbano girava negli ambienti dei Nar di Roma e li fotografava. Dopo la strage di Bologna ci fu un’ecatombe nella destra eversiva, regolamenti di conti al tempo fatti passare per omicidi compiuti da gruppi paramilitari della sinistra.
Perché Fioravanti, Mambro e Cavallini, tutti pluricondannati, seguitano pervicacemente a dichiararsi estranei alle accuse relative a quella strage?
Da Piazza Fontana alla stazione di Bologna, a parte Piazza della Loggia a Brescia, non c’è una sola rivendicazione: una strage non si rivendica mai. Il gruppo Fioravanti, Mambro, Cavallini, Ciavardini e i Nar più in generale, avevano legami persino con la banda della Magliana e i servizi segreti, tanto è vero che nel 1981 a Bologna fu rinvenuta sul treno Taranto-Milano una valigetta contenente un mitra che proveniva dall’arsenale della banda della Magliana, nascosto presso il ministero della Sanità, a Roma. La valigetta conteneva anche giornali stranieri (poco tempo dopo una dichiarazione di Licio Gelli, secondo il quale l’origine della strage di Bologna andava ricercata all’estero) ed esplosivo simile a quello utilizzato alla stazione. Questo serve a ribadire che i Nar non erano un gruppetto sorto quasi per caso allo scopo di colpire magistrati e poliziotti. Intorno al 1978, ci fu un salto di qualità, con uno scambio di favori. Non a caso, i Nar erano molto potenti sul piano operativo e sfuggivano regolarmente alla giustizia. Chi si schierò contro di loro, a partire dal giudice Amato, fece una brutta fine. I Nar si ammantarono addirittura di un’aura di eroismo che non ci fu mai.
Cosa manca ancora per ricostruire l’ultimo tassello di verità di questo episodio vergognoso della nostra storia?
L’ultimo anello è quello che stiamo attendendo, anche se molto è già scritto nelle carte del processo ai mandanti, con il ruolo sempre più chiaro della loggia P2, attraverso l’elargizione di somme importanti, a partire dal febbraio 1980, dalle casse della P2 e del Banco Ambrosiano. Con quelle somme, Gelli pagava i neofascisti ma pure altri personaggi come, secondo l’accusa, il prefetto D’Amato o il giornalista Tedeschi. Nel 1980, la P2 era un’entità potentissima ma sconosciuta. Fu scoperta solo all’inizio del 1981 grazie a un’azione rocambolesca della magistratura che non si fidava di nessuno, perché i vertici delle istituzioni e degli apparati dello Stato erano iscritti a quella loggia. In quel processo c’è praticamente tutto, comprese le ragioni per cui la bomba esplose proprio il 2 agosto e proprio a Bologna: ovvero, pochi mesi prima che si scoprisse l’esistenza di una loggia golpista che intendeva sovvertire l’ordine democratico del nostro paese, secondo quanto scritto nel 1977 da Licio Gelli nel suo “Piano di rinascita democratica”.
Come reagì la città?
La città di Bologna rispose in modo straordinario, con un’immediata catena di solidarietà, con cittadini normalissimi così come viaggiatori di passaggio che si unirono alla polizia e ai soccorritori, scavando a mani nude tra le macerie. La solidarietà e unità dei bolognesi fu il migliore antidoto al morbo stragista, a partire dagli stessi funerali, con la giusta ribellione dei familiari delle vittime che vollero parlare non con i vari politici della Dc giunti per fare passerella ma solo con il presidente Pertini, socialista ed ex-partigiano, che pianse davanti ai resti della stazione. Il tributo di morte fu pesante, ma la solidarietà sconfisse lo stragismo.
Dopo la bomba alla stazione di Bologna, la stagione delle stragi si concluse. Fu davvero la fine della strategia della tensione?
In Italia c’erano il partito comunista e il sindacato di sinistra più potenti dell’Europa occidentale e un’avanzata delle forze progressiste era certa. Dunque, bisognava contrastarla e ciò ebbe inizio nel 1969 e terminò il 2 agosto del 1980. Il 20 giugno 1976, si era sfiorata di un soffio la vittoria delle sinistre nelle elezioni politiche. La strategia della tensione, con numerose stragi, pose fine a quell’avanzata apertasi con l’autunno caldo e le lotte studentesche, tra 1968 e 1969. Poi, a partire dal 1984, con la strage del Rapido 904, quella strategia venne portata avanti dalla mafia: gli ultimi processi hanno attribuito la responsabilità di quella strage a Totò Riina. Quindi, la strage di Bologna sancì la fine della prima strategia della tensione, voluta da apparati dello Stato italiano così come di altri stati, da neofascisti e da uomini della massoneria, quella sì, deviata.