di Antonio Salvati
Ammettiamolo: ciascuno di noi, se gli si dice che è influenzato dalla pubblicità, risponde che su di lui essa non sortisce nessuno effetto. Tanti direbbero che «neanche la guardano». Infatti non la guardano; ma la vedono. Non possono fare a meno di vederla, almeno fugacemente e almeno senza guardarla con attenzione. Ebbene, il pubblicitario non si augura affatto che il suo lavoro sia guardato con attenzione, compreso nei dettagli, analizzato a fondo. Si augura precisamente il contrario, e sa che può contarci. È uno dei presupposti sul quale si sviluppa l’analisi e la riflessione nell’ultimo volume del linguista Edoardo Lombardi Vallauri, La lingua disonesta. Contenuti impliciti e strategie di persuasione (Il Mulino 2019, pp. 230, € 16) per spiegare che cosa succede nel nostro cervello quando riceviamo e processiamo un messaggio. I messaggi sono confezionati proprio perché un destinatario distratto sia raggiunto e influenzato dall’essenziale, ma non arrivi ad accorgersi di ciò che non va. Proprio perché siamo distratti, siamo più influenzabili dalla pubblicità.
Dopo decenni di ubriacature pubblicitarie, potremmo dire che il vasto pubblico dei destinatari della pubblicità si è scaltrito. Promuovere, dire le cose non basta più. Il linguaggio della pubblicità si è adeguato e, come spiega Vallauri, non dice ma allude, presuppone, coinvolge l’ascoltatore o lo spettatore, più che come destinatario del messaggio, come complice, facendo leva sui suoi pregiudizi, le sue insicurezze, le sue meschinità e – in questi tempi – sulle sue paure. Con tanto di gratificazione rivestita di glamour («Perché tu vali!»). Similmente il linguaggio della politica. Attraverso i social sono cresciute le possibilità d’intervento e di dibattito. Per quelli della mia generazione, cresciuti con i tempi lenti, quasi eterni, di «Tribuna politica», il passaggio all’istantaneità della rete è stato quasi traumatico. Rapidamente siamo passati dall’argomentazione, anche minima, alle battute a effetto, ai meme.
Potremmo obiettare che tutto questo è evidente, decisamente ovvio. Tuttavia, un conto è saperlo, un conto è capirlo. Per capirlo il libro di Edoardo Lombardi Vallauri è assai utile, accessibile anche al lettore non specialista. Lombardi Vallauri ci presenta un’ampia raccolta di esempi assimilabili alla «lingua disonesta»: contenuti impliciti, impliciti linguistici, implicature, presupposizioni, vaghezza. La persuasione agisce in maniera sottile, strisciante e spesso con la nostra collaborazione, come dimostra il caso delle implicature. Per il linguista Edoardo Lombardi Vallauri, l’effetto persuasivo di un messaggio è spesso affidato al non detto piuttosto che al detto, a ciò che implicitamente lascia intendere la parola piuttosto che a ciò che riferisce esplicitamente. In altri termini, dire qualcosa senza dirlo. Ad esempio, quando Donald Trump ha manifestato l’intenzione di make America great again voleva comunicare attraverso un’implicatura. In maniera implicita – perché esplicitamente sarebbe risultato molto meno convincente – intendeva portare gli statunitensi a pensare che sotto il suo predecessore l’America non fosse più grande.
Inoltre, con il formato ridotto dei messaggi in questo clima comunicativo prevalgono quelli che esprimono poche cose che parlano più alla pancia che alla testa. Prevalgono quelli che non hanno ragione, sviluppando una sommarietà esasperata. Lo slogan «In Europa per cambiare tutto» vuol dire tutto e niente. Cosa significano slogan come «Il passato non ci basta e il futuro è casa nostra» o «Questo Paese è in grado di fare tutto» o «Siamo un Paese forte, un Paese che fa i controlli»? Tutti questi modi – osserva Vallauri – «sono sfruttati per indurre una processazione meno vigile e meno accurata dell’informazione».
Salvini in un tweet del 28 febbraio 2017 informava in merito ad un crimine, specificandone la provenienza etnica dell’autore: «il 21 febbraio un immigrato indiano ha aggredito una ragazza a Firenze, inseguendola e cercando di strangolarla». L’obiettivo è di far implicare che vi sia un forte legame di causa-effetto fra l’essere un immigrato (indiano) e le aggressioni. Il destinatario è incline a crederlo, senza farsi le domande che un’asserzione esplicita suscita quasi inevitabilmente. Se Salvini avesse scritto «gli immigrati indiani sono dei delinquenti», la falsità dell’assunto sarebbe stata difficile da ignorare.
Gli stereotipi sono assai presenti nella nostra comprensione della realtà. Per fare ancora un esempio, i nomi comuni sono veicolo classico di stereotipi: menzionati in modo generico, categorie come immigrati, omosessuali, meridionali «generano nella mente immagini stereotipate, tipizzate, fatte di un insieme di caratteristiche semplificate e in larga parte inesatte. Gli immigrati sono di colore, poveri, dediti ad attività non sempre legali; gli omosessuali sono effeminati e ricchi di senso estetico; i meridionali sono imprecisi, ritardatari, facili alla confidenza; e così via. Se concentriamo la nostra attenzione su una singola persona, ne vediamo le caratteristiche reali; ma se la consideriamo solo come membro di una di queste categorie, facilmente finiremo per attribuirle queste caratteristiche stereotipate». Gli stereotipi consentono di veicolare molto rapidamente contenuti complessi, considerando che diversi studi attestano che il nostro sistema cognitivo tende a privilegiare i processi rapidi ed economici rispetto a quelli più riflessivi, aprendo la strada alle illusioni cognitive.
Quel che il volume vuol farci capire è che il linguaggio in quanto struttura, e non solo i contenuti di cui parla, «funziona in una maniera reale, concreta, e limitata. Presenta difetti di acquisizione, filtro e mantenimento dell’informazione. Cioè, ci sono condizioni in cui comincia ad avere una resa parziale. […] così noi rendiamo meglio sopra un certo livello di attenzione, che a sua volta è reso possibile da un certo grado di asserzione del messaggio che ci arriva: sotto un certo livello di esplicitezza, date le condizioni di sovraccarico che caratterizzano il fluire del discorso, la nostra processazione è superficiale e difettosa. Si creano in noi impressioni diverse da quelle che si creerebbero se fossimo più attenti. Trascuriamo di vagliare bene gli elementi che ci sembrano meno importanti, oppure quelli che ci vengono presentati proprio in modo da farceli sembrare meno importanti.
Il risultato è che crediamo di avere un perfetto potere di scelta, e invece siamo in parte manovrati dall’esterno, da chi ci fa scegliere quello che conviene a lui. I sistemi che vengono usati per raggiungere questo risultato sono anche, e in misura rilevante, delle strategie e dei costrutti linguistici». Considerato che normalmente ricordiamo meglio e più facilmente ciò che abbiamo visto, rispetto a ciò che abbiamo letto o ascoltato, converrebbe coinvolgere il mondo della scuola affiancando all’educazione alla scrittura quella all’immagine.