di Giuseppe Costigliola
Quale eredità ci ha lasciato l’antifascismo? Ha ancora un senso oggi, o è soltanto un residuato storico, ormai slegato dall’attualità? A queste domande, ricorrenti nella riflessione politica e sociale da almeno un quarto di secolo, lo storico Carlo Greppi ha dedicato il suo ultimo lavoro, L’antifascismo non serve più a niente (14 €), pubblicato nella nuova serie dell’editore Laterza, “Fact Checking”, curata dallo stesso Greppi, che intende mettere “alla prova dei fatti” i luoghi comuni diffusi su eventi e concetti storici.
Greppi non entra nell’annoso dibattito sulla natura del fascismo. Piuttosto, mette a fuoco il nostro tempo, segnato dallo spudorato tentativo di riabilitare quell’ideologia e i suoi crimini, un tempo in cui la memoria pubblica di quel periodo nefasto “non ha mai goduto di una salute migliore”.
Per dimostrare la cogente attualità dell’antifascismo, recuperarne il senso più autentico, Greppi propone un viaggio, articolato in sei “passaggi”, tra le più alte vette dell’etica del nostro Paese, un incisivo percorso tra le parole e le azioni dei protagonisti che, con le loro scelte di campo, sconfissero il fascismo storico – scelte sorrette da un rigore morale e un viscerale amore per la libertà e la giustizia che ancora oggi dovrebbero suscitare un’ammirazione incondizionata al netto di ogni ideologia.
Gli oppositori
I primi due passaggi rievocano le straordinarie figure di coloro che sin da subito si opposero a Mussolini e al suo spietato regime, pagando con la vita (Gobetti, Matteotti, Anteo Zamboni, don Minzoni, Giovanni Amendola), e delle numerose altre che in piena dittatura non accettarono il fascismo, subendo il carcere, ogni tipo di violenze e costrizioni, la morte. Cosa ci hanno insegnato costoro? “Innanzitutto a chiamare le cose con il loro nome: i fascisti erano ladri e assassini, e andava detto a viva voce”. Poi, che furono disposti a portare alle estreme conseguenze la difesa dei propri ideali. E “cosa poteva muovere e rigenerare tanta determinazione?” si chiede ancora Greppi, rispondendo con le memorabili parole di Ferruccio Parri, che ancora oggi riecheggiano come un monito per noi contemporanei, incattiviti e confusi da una temperie culturale torbida e cinica: “Contro il fascismo non ho che una ragione di avversione, perentoria e irriducibile, perché è avversione morale: è, meglio, integrale negazione del clima fascista”. Il fascismo può “colpire, perseguitare, disperdere”, ma non potrà mai aver ragione di una tale opposizione, perché “non si può estirpare un istinto morale”.
Lo spartiacque morale dell’8 settembre
Il terzo e il quarto passaggio si soffermano sul carattere della disobbedienza di chi, dopo lo spartiacque morale dell’8 settembre, a differenza dei più non esitò ad abbracciare la lotta partigiana, sulla scelta di abbracciare le armi, sull’insegnamento che dobbiamo ricavarne: l’esigenza di intransigenza e di radicalità che s’impone in determinati momenti della storia, quando “l’obbedienza non è una virtù”. È forse la parte più interessante dello studio: qui Greppi nota come nel discorso storiografico sull’antifascismo si sia obliata la Resistenza armata. In controtendenza con gran parte della storiografia attuale, egli affronta il discorso della violenza dei partigiani, mettendo in chiaro come essa avesse una sua ponderazione e una sua ragion d’essere.
Per chiarire questo punto nodale, che esplicita lampantemente l’impossibilità di mettere sullo stesso piano morale i fascisti e gli antifascisti che si contrapposero in quei feroci venti mesi di guerra civile, Greppi analizza la pubblicistica partigiana (articoli, memorie, lettere) e alcuni celebri romanzi, ricavandone in tutta la sua forza la repulsione morale per la violenza che gli antifascisti erano costretti ad esercitare, consapevoli com’erano della sua inevitabilità se si voleva sconfiggere il male assoluto rappresentato dal fascismo. Al contrario di questo, che poneva la violenza come un valore in sé, come culto e ragion d’essere, i partigiani pensavano ad “un uso contingente della violenza per renderla nel futuro impossibile”, come ha scritto uno dei maggiori storici della Resistenza, Claudio Pavone. Questo groviglio di idealismo e concreta esperienza della guerra ci ha insegnato che gli antifascisti che presero le armi “dovettero imparare anche ad ammazzare, a mettere in conto di poter morire”, a credere in quel futuro che con la loro lotta stavano realizzando.
La carica ideale
Il quinto passaggio recupera un concetto fondamentale dell’antifascismo: in un Paese in cui si ciancia di Resistenze tradite, imbalsamate, maledette, si è persa di vista la straordinaria carica ideale nella quale fu forgiata la sua lotta. Nell’odierno dibattito pubblico si ridimensiona dunque il portato rivoluzionario – morale, esistenziale, politico – di quanto accadde, ed è stata sdoganata l’idea della Resistenza come qualcosa da condannare. “Il lungo processo di discredito della Resistenza da destra”, conclude Greppi, “e il suo continuo ‘ripensamento’ dall’altra parte si sono così messi al servizio di convergenze di interessi politico-culturali di segno opposto, con responsabilità non irrilevanti dei media sempre alla ricerca di titoli ad effetto”. La migliore risposta a questa continua opera di delegittimazione dell’antifascismo e della Resistenza è innanzitutto “il saper vedere l’immensa capacità che ebbero questi uomini e queste donne di sacrificare il loro presente e i loro destini per il bene della collettività, provando ad anticipare anche nel concreto scorrere della lotta frammenti della società nella quale credevano”.
Oggi un Paese rancoroso
Il sesto e conclusivo passaggio si sofferma sull’unità antifascista, raffrontata con la situazione odierna che vede “un Paese rancoroso” con “una democrazia che ha perso completamente fiducia in se stessa”. Una democrazia conquistata “a livello militare, politico e umano”, grazie proprio alla compattezza raggiunta dal fronte antifascista, che seppe superare contrasti di idee anche feroci dando luogo alla Repubblica e a quel modello ideale che ancora oggi è la Costituzione italiana. Da qui, l’angosciosa domanda posta dallo storico torinese, che è altresì una proposta: recuperare la tensione ideale che ha reso possibile la democrazia da noi oggi così mal vissuta e financo bistrattata: “Perché non riusciamo più a vedere il futuro come lo vedevano i protagonisti della lotta di liberazione? Perché non ripartiamo dall’immagine che ne avevano loro stessi?”
Ecco il percorso di rinascita che dovrebbero intraprendere tutti coloro che credono in quei valori supremi. Un percorso che quelle donne e quegli uomini a cui dobbiamo il nostro oggi imboccarono, mettendo in gioco le loro vite e le loro identità, in un momento ben più tragico del nostro. Perché “ci sono promesse da mantenere, virtù da riaffermare che oggi vengono sbeffeggiate”. Esiste “un imperativo morale, un imperativo ad agire, a opporsi con fermezza alla cultura della sopraffazione, del disprezzo e della violenza con cui il fascismo ha avvelenato l’Italia. C’è un’idea di futuro, che venne tenacemente inseguita insieme”.
Le lettere di condannati a morte dai repubblichini
Il libro si chiude con alcuni brani di lettere di condannati a morte dai repubblichini, percorsi da un rigore e da una tensione morale e ideale oggi quasi incomprensibile – e in questa orrenda distanza giace la nostra piccolezza, la nostra sconfitta. Per questo risuonano come non mai profetiche ed attuali le parole di Ferrucci Parri, con le quali Greppi conclude questo appassionato studio: “Nella sua storia è solo tra il 1943 ed il 1945 che l’Italia dà quello che ha di meglio. Vi è una carica di energia morale che l’Italia non ha mai avuto nella sua storia, mai. Non vogliamo che su questa pagina della vita italiana, su questa carica morale si possa stendere un comodo lenzuolo di oblio. Questo no, compagni giovani. Ora tocca a voi”.
Forse, se un libro come questo fosse diffuso nelle scuole, vivremmo in una società migliore.