di Antonio Salvati
In queste settimane segnate dal coronavirus siamo rimasti colpiti dalla strage degli anziani negli istituti, in un groviglio di errori e di irresponsabilità. La triste vita degli anziani istituzionalizzati, allontanati dal contesto umano in cui sono vissuti, ci insegna che l’istituzionalizzazione non può rappresentare la normalità per le persone non più autosufficienti, ma solo un’eccezione.
L’anziano rappresenta un grande paradosso della nostra società contemporanea. Tutti gli uomini e le donne oggi possono fortunatamente vivere più a lungo, ma la loro vita può sembrare spesso inutile e ingombrante. Il messaggio che giunge purtroppo a non pochi anziani è che sarebbe meglio farsi da parte. L’anziano non serve. I giovani sembrano non aver bisogno degli anziani perché raccontino loro com’è fatto il mondo. C’è già il web per questo. La medicina fa di tutto per farci vivere meglio e più a lungo, ma, allo stesso tempo, la società sembra dire che si vive troppo a lungo. Potremmo dire che la vecchiaia oggi è come la scoperta di un nuovo continente; o meglio, è l’emersione di un nuovo continente, a lungo rimasto sommerso. Questo può sorprendere. Gli anziani, anzi, sono visti come una realtà ben conosciuta. Sono tanti, oggi; più del 20% della nostra popolazione. Sono in ogni famiglia e, anzi, cresce nella famiglia italiana l’importanza dei nonni, pensiamo ai carichi assistenziali, alle necessità finanziarie, alla distribuzione dei tempi. Chi oggi non ha un anziano vicino di casa?
Eppure la vecchiaia rappresenta un continente sconosciuto. Perché oggi c’è attorno a noi una scarsissima consapevolezza di che cosa rappresenti la vecchiaia e l’invecchiare: le opportunità, i problemi, i tratti, i valori di questa età, che pure tracima nell’orizzonte delle nostre vite quotidiane. L’esperienza di invecchiare, fino a qualche generazione fa, era un fatto di pochi, e limitata per lo più al mondo del benessere. Oggi, ovunque, è l’attesa di ogni vita. Si possono allontanare gli anziani dalle case, si possono allontanare dagli ambiti di vita – pensiamo alla presunta ineluttabilità degli istituti, una mentalità profondamente sbagliata che porta ad atti di disumanità, oltre che di follia pura, in termini economici e sociali – ma non si può eliminare – spiega Andrea Riccardi -quell’anziano che è in ognuno: «non si può rigettare quel continente anziano che è emerso, e quel corpo di anziano, quel viso di anziano che emerge dal mio corpo, dal mio viso, da ogni cuore».
Il paradosso accennato scaturisce anche dal dominio dell’ideologia del presente, il presentismo. Siamo tutti concentrati su quello che ci succede ora. Il modello consumista dominante, il materialismo diffuso ci obbliga a pensarci in un orizzonte temporale ristretto. Le grandi visioni del futuro si rattrappiscono, non ci sono grandi obiettivi per cui spendersi. Marc Augé, un sociologo francese si chiede: «che fine ha fatto il futuro? Oggi sul pianeta regna un’ideologia del presente e dell’evidenza che paralizza lo sforzo di pensare il presente come storia, un’ideologia impegnata a rendere obsoleti gli insegnamenti del passato, ma anche il desiderio di immaginare il futuro».
Pensiamo alla gravissima crisi economica che ci attanaglia. La recessione sta diventando depressione. Collasso dell’economia, ma pure stato d’animo diffuso. Qualcuno si ricorda cos’era l’Italia tra il ’45 e il ’49 ed anche all’inizio degli anni Cinquanta? Qualcuno può paragonare le condizioni in cui versava allora un paese stremato dalla guerra, arretrato, analfabeta, con quelle di oggi? Eppure allora si viveva un grande entusiasmo, una proiezione collettiva verso il futuro.
Intere generazioni hanno vissuto una vita di grandi sacrifici, puntando esclusivamente sul fatto che avrebbero lasciato un’Italia migliore ai loro figli. Il tarlo del pessimismo è la malattia dei ricchi che si scoprono un po’ meno ricchi e si impauriscono. Ma è anche la debolezza di una generazione che vive solo nel presente, non sa scegliere e non riesce a nutrire quelle grandi ambizioni che maturano nelle difficoltà e nelle ristrettezze. Kierkegaard diceva: «la vita può essere capita solo guardando indietro, ma deve essere vissuta guardando avanti».
Una seconda caratteristica che spiega il paradosso della vecchiaia: il culto del vivere soli, il fare da soli. Il disegnare la propria esistenza in solitudine. Affermava con finezza la Gaudium et Spes, «la libertà umana (…) si degrada quando (l’uomo), cedendo alle troppe facilità della vita, si chiude in una specie di aurea solitudine». Viviamo in una società sempre più individualizzata, dove ognuno fa fatica a sentirsi parte di un “noi”, dalla famiglia alla cerchia degli amici o alla comunità di destino; stare da soli è considerato normale: in molte città europee, il numero dei single ormai supera quello delle convivenze. Scrive Bauman: «la vita solitaria (…) può essere allegra ed è probabile che sia molto indaffarata, ma è destinata ad essere anche rischiosa e terribile». Lo vediamo in questa crisi economica. Lo vediamo quando ci si ammala. Gli anziani sono i profeti della compagnia e dell’accompagnamento, di cui tutti, dai più giovani ai più vecchi, hanno bisogno. Gli anziani spiegano bene come la solitudine sia una malattia e non un segno di forza o di benessere.
Papa Francesco schierandosi contro la cultura dello scarto ha valorizzato la debolezza. Il nostro mondo ha orrore della debolezza e della fragilità. La debolezza è una caratteristica costitutiva degli anziani. Ma non lo è forse di tutti? Gli anziani ci ricordano la “creaturalità” della nostra natura. La dimensione del limite inscritto nel nostro corpo e nella nostra psiche. Questo è un tratto antropologico fondamentale dell’essere cristiani: non disprezzare la debolezza, ma anche essere consapevoli che tale debolezza esiste già nei momenti di maggiore salute e vigore, già nel momento della ricchezza e del ruolo. In fondo siamo tutti lontani da un senso realistico della debolezza, da un senso spirituale di essa. Senza l’anziano la vita della nostra Europa perde molto in umanità, si impoverisce perdendo la memoria del passato e il valore di ciò che è umano. Restituire spazio alla vecchiaia ricompone l’ecologia del vivere.
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