di Alessandro Agostinelli
Robert Louis Stevenson viaggiava per motivi di salute. Soffriva di tubercolosi e il clima della natia Scozia non era certo benevolo con lui. Per questo usava spesso e volentieri il denaro di famiglia per spostarsi al sole. Ha finito la sua breve esistenza, a 44 anni, al caldo di un’isola del Pacifico, in uno dei paesaggi narrati ne L’Isola del Tesoro.
Ai nostri giorni, ormai, non si viaggia più. E non si viaggia più per motivi di salute. Cioè l’esatto contrario di Stevenson. Lo scorso mese le ricerche su internet, relative ai viaggi, sono calate di oltre il 50% rispetto a marzo dello scorso anno, e sono calate di oltre il 37% rispetto a febbraio appena passato (spiega l’indagine di ByTek, agenzia di performance marketing). Se la passano male i viaggi-avventura e l’ecoturismo, ma anche l’enogastronomico e i travel bus hanno performance molto negative. Spiagge e isole contano un 49% in meno di digitazioni sui motori di ricerca. E non stanno bene neppure laghi e fiumi con meno 42%.
Dal canto suo Confturismo-Confcommercio dà per assodata la perdita di circa 30 milioni di turisti italiani e stranieri tra marzo e maggio. E le prospettive sono nere: su 200 miliardi di volume d’affari del turismo italiano, le previsioni meno pessimistiche stimano una perdita del 60% da qui a fine anno.
Personalmente, tra marzo e aprile, ho già perso un viaggio in Albania, l’accompagnamento di un gruppo a Lisbona e una missione in Israele per un documentario. E il timore è che anche in estate sarà difficile riprendere a viaggiare. Sono chiusi hotel e bed&breakfast, sono ferme le agenzie di viaggio e il traffico aereo. Il mondo del turismo e dei viaggi è completamente scombussolato da questa pandemia. Anche psicologicamente è difficile pensare a spostarsi in qualche luogo dalla prospettiva monodimensionale del pavimento di casa. Oggi diventa un miraggio pure la frase che lo psicologo Paul Watzlavick usava per criticare coloro che non avevano spirito di scoperta. Scriveva: “Di norma le usanze paterne non fanno che condurre al bar sottocasa”. Adesso manco quello. Quando diventa un sogno prendere il caffè nel bar del quartiere è difficile cullarsi nell’idea di prenotare un volo aereo.
Dalle astronavi al divano
La fantascienza ci ha sempre raccontato grandi viaggi e avventure, missili spaziali, astronavi, capsule e frotte di veicoli che viaggiano nello spazio. Questi mezzi ci avrebbero spostato velocemente da un luogo all’altro, da un pianeta all’altro. E ancora oggi, nella mente di qualche ricco temerario, è presente la sfida di poter programmare viaggi di gruppo sulla Luna o perfino su Marte.
Per decenni abbiamo rimpinzato la nostra mente di un’idea di futuro costruito sullo spostamento. E invece ci ritroviamo a casa, collegati di fronte a schermi, per guardare il mondo dal nostro oblò privato, uguale a tanti altri oblò personali, separati da tutti gli altri. Illusi dalle fantasie fantascientifiche di essere destinati a viaggiare nell’Universo, ci troviamo seduti sopra una sedia (una poltrona o un divano, non fa differenza), fermi, immobili presso la nostra abitazione. Questa separazione dal mondo esterno è una distanza dagli amici, da alcuni parenti, ma anche dagli sconosciuti, cioè dal mistero e dalle casualità della vita.
Non c’è più spazio in questo momento storico per l’altrove. Non c’è alcun orizzonte oltre il quale si potrebbe scoprire qualcosa che non sapevamo esistere prima. Non ci sono più angoli oltre i quali scovare un eterno diverso da noi, al tempo stesso attraente e repulsivo.
Gli strumenti digitali
Non sono la medesima cosa gli strumenti digitali che scandiscono la nostra giornata, perché essi si attivano esclusivamente come estensione della nostra percezione, come vissuto dei nostri capricci. Possiamo fregarcene e nessuno ci importunerà; possiamo non riuscire a stare senza e l’unico confronto reale saremo noi stessi, perché gli altri sono scomparsi in un vocale o, nella migliore delle ipotesi, in una videochiamata.
Lo scrittore Giorgio Manganelli diceva che le guide turistiche erano inutili, perché davano un sacco di informazioni numeriche e razionali, ma non stimolavano al viaggio, perché dentro non c’erano né gli odori né i colori dei luoghi che avremmo voluto visitare. Aveva ragione.
Il tema centrale del viaggio è l’esperienza. E quel tipo di esperienza non ce la può dare un device elettronico. Al limite ce la può dare la letteratura, ma questo è un altro discorso.
Chi va e chi torna: da Salgari a Ulisse
Quando Emilio Salgari scriveva di Mompracem e di Sandokan, seduto sulla sua sedia, in casa, a Torino, c’era un uomo che sul serio andava in quei luoghi esotici. Partiva con valige e taccuino, dove annotava le piante e i paesaggi, e poi gli uomini e le usanze che incrociava nel suo viaggio di lavoro. Era un botanico dell’Università di Firenze, si chiamava Odoardo Beccari ed è stato saccheggiato a mani basse dall’amico Salgari per i suoi romanzi d’avventura.
C’è sempre qualcuno che viaggia perché un pomodoro o una patata arrivi sulla nostra tavola, perché una storia ci affascini o un’usanza ci coinvolga. C’è sempre qualcuno che viaggia per portare indietro un vestito in regalo o per ricordare talmente bene i profumi di una pietanza da riprodurla esattamente.
Si viaggia per necessità, come hanno fatto finora i migranti in tante parti del Mondo e nel Mediterraneo. Si viaggia per lavoro o per religione. Sono moltissime le ragioni per partire. Solitamente i turisti sono coloro che amano muoversi per vacanza, cioè per rilassarsi o divertirsi; mentre i viaggiatori amano scoprire nuovi luoghi, imparare le usanze di altri popoli, oppure hanno un progetto da sviluppare con un viaggio.
Per esempio, il progetto di Cristoforo Colombo era dimostrare la sfericità della Terra. Così ha trovato l’America. Anche questo è viaggiare: cercare una cosa e trovarne un’altra. Quante volte si resta stupefatti da una città che credevamo più brutta o più bella, da un piatto che pensavamo più saporito o più insulso, da un clima che ritenevamo più caldo o più freddo.
C’è chi parte per tornare e chi parte per partire e basta.
Ulisse si mise in viaggio, ma il suo preciso scopo era tornare. Non a caso il racconto delle sue avventure è un “nostos”, un ritorno. Eppure c’è chi parte con un biglietto di sola andata, come Alessandro Magno che si mise in cammino dalla Macedonia e proseguì a dritto, andando sempre avanti, fino quasi all’India, conquistando terre e popoli.
Sono due modi di intendere il viaggio profondamente differenti, eppure entrambi si rifanno a umani desideri e ragionevoli auspici: che sia difendersi dai nemici, o conquistare terre e nazioni. Ma non viaggiamo soltanto noi uomini. Viaggiano gli animali, si spostano le acque e le nuvole, e anche i virus.
Viaggiano anche i virus: siamo il loro ospite perfetto
Anche le malattie si propagano viaggiando. E mentre noi, homo sapiens, siamo sulla Terra da 200mila anni, i virus ci sono da oltre 3 miliardi di anni. Quindi rispetto alla capacità di resistenza in vita e di evoluzione diciamo che abbiamo tutto da imparare da loro.
In antichità i virus camminavano insieme ai nomadi sulle rotte carovaniere. Oggi si muovono con gli aerei. Noi umani siamo il veicolo preferito dei virus, siamo l’ospite perfetto e più siamo, più viviamo assembrati in grandi città, più ci spostiamo da un capo all’altro del Mondo, più saremo coinvolti nel contagio. Sappiamo quindi che il coronavirus ha bisogno di corpi reali, in carne e ossa. Esso è un piccolissimo, microscopico organismo al margine della vita, che distrugge dall’interno organismi immensamente più complessi e grandi di lui.
Eppure alcuni intellettuali italiani hanno attribuito l’espansione del virus a forme di comunicazione istituzionale particolarmente liberticide (mi viene in mente il filosofo Giorgio Agamben). Come se lo stesso invito a stare a casa fosse lo sdoganamento del contagio. C’è in questa visione lo stesso atteggiamento dei capi degli amerindi verso le loro vedette. Raccontano i diari dei gesuiti andati a colonizzare le Americhe che una volta che la vedetta avvistava una nave spagnola e correva a riferirlo al villaggio veniva uccisa, perché secondo la cultura di quelle tribù era stata la vedetta stessa a portare la nave.
Baricco la butta sul “Game”
Un’altra posizione eccentrica, almeno in parte del suo ragionamento, pare quella dello scrittore Alessandro Baricco, quando scrive che Covid-19 è “la prima emergenza planetaria generata dall’epoca del Game, della rivoluzione digitale”. L’ha scritto per mettere dentro alla frase la parola “Game” che è anche il titolo del suo ultimo libro e tuttavia sa bene anche Baricco che non è stato il Game a scatenare la pandemia, ma quella che definiamo da tempo globalizzazione. Il virus è reale non è digitale. Non è un gioco.
Così come il viaggio è un’esperienza di vita diretta e non conta nelle sue forme virtuali, perché forme di rappresentazione, anche il coronavirus è attivo nel Mondo perché sollecitato da alcune nostre abitudini contemporanee come spostare grandi masse di gente da un continente all’altro e quindi poter mettere in contatto persone che si servono nei mercati di animali vivi (wet market) della Cina del Sud con un ingegnere moscovita, un imprenditore tessile di Prato, un avvocato di New York. L’estrema facilità a muoversi del nostro tempo ha prodotto in maniera così diffusa un virus che probabilmente non sconfiggeremo con un solo prossimo vaccino, ma che troverà modi di modificare se stesso per resisterci. Perciò siamo incerti sul futuro dei viaggi.
Dalla poltrona dell’aereo a quella di casa
Se compariamo la voglia di viaggiare con questo nostro presente stanziale potremmo quasi dire che stiamo aggiornando ciò che ha dato all’umanità il salto verso la prima civilizzazione. Cioè quando siamo passati dal nomadismo alla stanzialità, vale a dire dalle civiltà dinamiche degli allevatori, alle civiltà statiche degli agricoltori. Gran parte di noi, giovani e anziani, ha passato gli ultimi 20 anni delle proprie vite a muoversi, prendendo voli low cost nei fine settimana, andando a visitare la tale o la talaltra capitale europea. Ultimamente siamo stati moderni nomadi di Ryanair; adesso ci tocca piuttosto cominciare a ricavare un pezzo d’orto nel giardino. Ci siamo già attrezzati a fare la fine di Xavier de Maistre, come racconta nel suo libro Viaggio intorno alla mia camera, tour di (si badi bene l’assonanza con l’attuale “quarantena”) 42 giorni nella sua camera, a bordo della poltrona da cui non si staccava mai. E forse, molti di noi che non hanno un cane e un servitore, come invece aveva lui, abbiamo già acquisito i suoi stessi tic: ci siamo sdoppiati in due personalità che dialogano e battibeccano tra loro, all’interno del nostro “io”; adoriamo un quadro particolare di casa, lo specchio dove possiamo vederci e, finalmente, parlare con qualcuno.
Al di là degli slogan riprodotti sui social, che indicano l’impossibilità di un ritorno alla normalità perché si pensa che il problema fosse proprio quel tipo di normalità (sottinteso: sistema capitalistico di produzione e consumo legato al meccanismo della globalizzazione), le previsioni di una ripresa in tempi brevi di forme di vita simili a tre mesi fa hanno la parvenza dei sogni, appaiono come forme fantasmatiche cui non sappiamo ancorarci né, al momento, nominare.
E tra i viaggiatori di professione comincia a serpeggiare anche uno scrupolo morale legato all’uso sfrenato dei voli aerei, anch’essi uno dei veicoli di trasmissione del coronavirus e agenti di un forte inquinamento atmosferico. Infatti a fronte di benefici ambientali sarà difficile non tener conto in futuro di questo argomento. A maggior ragione se compariamo la frequenza del numero di velivoli in esercizio adesso con quelli attivi prima del lockdown planetario, visibile sulle piattaforme dei voli in tempo reale, in cui il paragone è abissale.
Gli ottimisti e i pessimisti
Eppure questa costrizione forzata a casa ha diviso il genere umano in due categorie: gli adeguati casalinghi contro i ribelli libertari.
I primi sono gioiosamente ottimisti sul fatto che nella nuova condizione si possa trovare una nuova ragione di vivere, più libera da orari, ufficio, mezzi di trasporto, aperitivi abitudinari, cene forzate tra amici, ecc. E sono secondo me coloro cui avanza il tempo, che più amano la lettura e i libri, sanno pazientare di fronte a una bizza, o provano a esercitarsi con qualche ricetta importante.
I secondi sono furiosamente pessimisti sul fatto che il divieto a uscire possa maturare benefici tra le mura di casa, e sono convinti che nessuna autorità possa chiudere in casa chicchessia, costringerlo a uscire soltanto per necessità indicate da decreti, impedirgli di spostarsi oltre i 200 metri dal proprio domicilio, ecc. E sono secondo me coloro che vorrebbero avanzare spediti verso la perduta normalità, che hanno nostalgia del luogo di lavoro, degli amici, dei consessi sociali, dei pranzi la domenica dai genitori.
Infine una parte dell’umanità pensa che dopo questa emergenza sanitaria avremo una sorta di palingenesi dove il mondo e l’umanità saranno migliori. Essi vedono una futura età dell’oro, e fanno il paio con coloro che vedono nell’attuale blocco l’usurpazione della democrazia, come se nel recentissimo passato ci fosse stata un’età dell’oro della nostra stupenda democrazia.
Avanza il tempo o si avanza nello spazio. Il verbo sa adattarsi a questi tempi di pandemia. E speriamo di tornare presto a misurarsi con qualche esperienza in viaggio fuori dalle mura casalinghe, perché come scriveva quel gran viaggiatore di Stevenson nei suoi Canti di Viaggio: “Partiamo presto o tardi /qualunque cosa accada /dammi il volto del Mondo /e qui davanti la strada”.