Quando il Muro cadde anche in Italia di Paolo Soldini (Edizioni Strisciarossa, prefazione di Walter Veltroni, pp. 122, euro 12, vedi sotto come acquistarlo) è un lungo racconto a tappe del prima, durante e il dopo la caduta del Muro di Berlino il 9 novembre 1989 visto con uno sguardo raro e vissuto in prima persona: dalla Germania Est, da giornalista dell’Unità chiamato a raccontare il regime dittatoriale comunista della Repubblica democratica tedesca, la DDR (o RDT in italiano), con un solo vero vincolo: raccontare quanto sapeva e vedeva senza censurarsi. Ne pubblichiamo un brano per gentile concessione dell’editore e dell’autore.
Soldini ricompone i tasselli della sua storia da giornalista e inviato nella Berlino del blocco sovietico sapendo guardare tanto allo scenario d’insieme come, con tocco umano, alle persone, a tormenti e speranze individuali: sa interpretare gesti, parole, sguardi, inviti altrimenti non decifrabili. Anche perché il cronista dà ampio risalto a un aspetto sconcertante ed evidenziato da Veltroni nella sua prefazione: «Con una virata inattesa gli ultimi capitoli sono dedicati ad un fenomeno che forse in Italia è stato meno avvertito, ma che ha segnato profondamente la coscienza tedesca: l’emergere della reale dimensione avuta dalla Stasi, dai servizi di sicurezza e di polizia politica del regime, nella storia della RDT e dei suoi abitanti. Bastano alcuni numeri. La Germania est aveva 16 milioni di abitanti, più di due milioni di loro erano stati schedati e oggetto di spionaggio e dossier. La Stasi aveva 200.000 agenti e quasi altrettanti informatori. Una macchina gigantesca, un numero tanto grande di dossier e di spiati da essere quasi inutile. A che serviva la Stasi? L’idea che esce da questo volume è quasi kafkiana: serviva a costruire una rete così fitta di agenti, informatori, spiati che poi finivano per diventare delatori da avvolgere e imbrigliare un intero paese».
A pagina 111 Soldini, raccontando il crollo di un regime con passo da narratore, spiega: «Il passato che non passa. È stato il tema di una intensa e dolorosa querelle negli anni successivi al nazismo. Una questione che ancora non è chiusa e alla quale se ne va aggiungendo un’altra, più lieve, forse, certo non bagnata dallo stesso sangue, ma non dissimile. I tedeschi non hanno saputo fare i conti con Hitler, ma non sanno fare i conti neppure con la SED, neppure con la Stasi che ha reso a tanti la vita impossibile, neppure con il Muro che ha spezzato la loro biografia di popolo»
Il giornalista scrittore presenta il libro il 9 novembre al cinema Palma di Trevignano Romano, a Roma l’11 all’Università Roma Tre, il 15 alla libreria Koob e il 20 al Macro Asilo; il 21 novembre è all’università di Siena con Maurizio Boldrini e Marcello Flores, il 22 a Palazzo Chigi a San Quirico d’Orcia. Il volume segna anche l’esordio come casa editrice del sito Strisciarossa diretto da Pietro Spataro.
Quando il Muro cadde anche in Italia può essere ordinato alla mail libri@strisciarossa.it indicando nome e indirizzo e copia di un bonifico di 12 euro specificando la causale “Donazione libro”.
IBAN: IT05C 02008 05075 000105517700 – Banca Unicredit, agenzia di Piazza Barberini, Roma
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Paolo Soldini: Dopo la Stasi
Cominciò così, la mattina d’un lunedì d’inverno due mesi e poco più dopo la caduta del Muro, la storia della Germania dopo la Stasi. Fino ad allora tutti avevano saputo, anche chi non ne aveva mai avuto esperienza diretta, che la Staatssicherheit esisteva, era forte, onnipresente, vendicativa. Che era “lo scudo e la spada” del Partito, che controllava il paese e perseguitava i nemici dello Stato, del Socialismo e dell’Ordine. Ma per la maggioranza dei tedeschi dell’est era un’entità mostruosa, sì, ma quasi astratta: un Moloch, una tigre dai cui artigli, se si rigava diritto e non si era troppo sfortunati, si riusciva a restare lontani.
Ora che qualcuno entrava nella sua tana, non da prigioniero e vittima ma da vincitore, la prospettiva cambiava del tutto: il cuore e le viscere della Stasi, si scopriva come se non lo si fosse sempre saputo, erano fatte di storie di esseri umani. Erano fatte di destini, di sentimenti, relazioni, paure, bassezze, nobiltà, atti di coraggio, genialità, stupidaggini, abitudini, gusti sessuali, stili di vita, vizi e virtù, odori (sì: persino odori, accuratamente conservati in appositi contenitori) che erano stati trascritti, battuti a macchina, spillati, inseriti in cartelline da ufficio e sistemati in 170 chilometri di scaffali che contenevano circa sei milioni di atti, quattro milioni relativi a cittadini della DDR, gli altri a tedeschi della Repubblica federale o a stranieri d’ogni parte del mondo, raccolti da quasi 200 mila agenti regolarmente assunti e stipendiati più 180 mila informelle Mitarbeiter (IM), collaboratori informali, spie occasionali, zeloti dell’ideologia convinti a fare un “passo in più” per il Socialismo e la Patria ma, ben più spesso, persone ricattate o uomini e donne in vendita per un po’ di soldi o una bella carriera. Figli che riferivano sui genitori, mariti sulle mogli e mogli sui mariti, amici sugli amici, colleghi di lavoro, vicini di casa.
Nessuno dei manifestanti si rese forse conto, quel giorno, dell’entità e delle conseguenze della storia cui stava, con gli altri, dando inizio. Quello che videro, all’inizio, furono montagne di striscioline di carta prodotte dalle macchine macinadocumenti, un buon numero delle quali un emissario del Ministero era andato a prendere personalmente, a Berlino ovest, quando si era scoperto che quelle in dotazione a Normannenstrasse non sarebbero mai bastate. E poi una quantità di sacchi pieni di brandelli di atti strappati a mano e riposti ordinatamente nei contenitori in un surreale atto di masochistico soprassalto di meticolosità: per anni in un ufficio federale di Norimberga una trentina tra impiegati e impiegate (molto più brave dei colleghi maschi, dicono) hanno lavorato a ricomporre come dei puzzles migliaia di documenti che erano stati considerati perduti.
Un lavoro pazzesco: per ricostruire tutto quello che c’è nei sacchi con il ritmo e il personale attuale, ci vorrebbero – si è calcolato – oltre trecento anni. Il fatto è che mentre si diffondeva la notizia che la Stasi avrebbe cominciato a distruggere l’archivio, la Stasi era già al lavoro. Fra l’esautoramento di Mielke e l’inizio di dicembre, probabilmente furono distrutte alcune decine di migliaia di incartamenti. E resterà per sempre il dubbio su che cosa contenessero. Sicuramente – si dice – i nomi e il resoconto dei servigi di un certo numero di infiltrati, ad altissimo livello, nella burocrazia e nella vita politica della Repubblica federale; poi la rete degli agenti che lavoravano per i servizi orientali (tedeschi, ma forse anche sovietici) in alcuni paesi occidentali; poi – è pensabile – prove di reati che avrebbero potuto portare a procedimenti giudiziari, in una futura DDR democratizzata (allora l’unificazione tedesca era un’ipotesi ancora molto vaga), nella Germania di Bonn o in altri paesi…
Il fatto che non si sia mai saputo quanto e che cosa sia stato distrutto in quelle ore ha contribuito fortemente a creare il clima di sospetti, accuse fondate sui “si dice”, di rese dei conti tra protagonisti del nuovo potere che avrebbe avvelenato, nei primi anni ’90, la vita pubblica della nuova Germania. Ma ha dato anche sostanza a un dubbio che, con il passare del tempo e l’accumularsi di testimonianze e ricerche storiche, è divenuto quasi una certezza: l’assalto alla Normannenstrasse non fu un evento spontaneo. Il grosso dei manifestanti era, certo, in buona fede. Ma la folla era stata aizzata ad arte, in modo da provocare un’irruzione e uno scoppio di rabbia distruttivo.
Insomma, ci fu certamente qualcosa di poco limpido in quel che accadde tra il 4 dicembre dell’89 e il 15 gennaio del ‘90. Ne è prova il fatto che passato il primo momento, le personalità più in vista dei movimenti democratici dell’est presero le distanze dall’iniziativa e cominciarono a porre con forza la questione non solo dell’”accesso” agli archivi della Stasi, ma anche del loro “controllo”. Una battaglia che durerà fino al 29 dicembre del 1991, quando finalmente verrà adottata la legge sui documenti della Stasi (StUG) che regola ancor oggi la materia.
Qualunque cosa ci sia stata sotto l’assalto, resta comunque il fatto che fu allora, e nei giorni immediatamente successivi, che l’opinione pubblica tedesca si rese conto della dimensione e della profondità del male con cui aveva convissuto per tanti anni. La quantità e la pervasività della documentazione che la Staatssicherheit aveva raccolto sui propri concittadini era sorprendente, senza uguali in nessun regime autoritario presente o passato di nessun altro paese del mondo e, per molti versi, tale da essere, proprio per le sue dimensioni, inutilizzabile ai fini della tutela della sicurezza dello Stato.
Quest’ultimo concetto può apparire strano, ma, in una intervista nel ‘95, me lo spiegò in modo molto efficace, Hansjörg Geiger, all’epoca direttore dello StUG e, in seguito, capo del Bundesnachrichtendienst, il servizio segreto della Germania federale. “Avere sei milioni di fascicoli, dal punto di vista della tutela preventiva della sicurezza dello stato è come non averne nessuno. Se il materiale è troppo, nessuno è in grado di lavorarci sopra metodicamente per compilare rapporti, indagini, per individuare ambienti o gruppi potenzialmente ostili. In realtà i fascicoli venivano utilizzati in un altro modo: quando c’era qualcuno che insospettiva, o “dava fastidio”, oppure si era già dichiarato lui stesso, in un modo o nell’altro, nemico del regime, allora si andava a cercare se c’era un dossier che lo riguardasse. E se non c’era, gli si metteva qualcuno alle costole e lo si fabbricava. Il caso più consueto era quello di chi chiedeva di emigrare nella Repubblica federale. Legalmente non era proibito, ma chiunque lo faceva finiva negli archivi. In un certo senso il sistema funzionava al rovescio. Serviva, più per la scoperta dei nemici, per le vendette e per l’intimidazione verso chi era già scoperto”.