Un luogo affascinante come la Mole Vanvitelliana al porto di Ancona ospita da venerdì 18 a domenica 20 “Kum!”, terza edizione del festival “dedicato alla cura e alle sue diverse pratiche” con la direzione scientifica di Massimo Recalcati. In oltre 40 incontri, informano gli organizzatori, intervengono 60 relatori e passa tra psicoanalisti, psichiatri, medici, filosofi, giuristi, antropologi, scrittori e poeti, teologi e biologi. Il filo conduttore quest’anno è l’origine della vita, dalla nascita di un figlio al ruolo di genitore, dall’origine della vita sulla Terra a come si è formato l’universo tra scienza e miti.
Sabato lo psicoanalista Aldo Becce insieme al collega Uberto Zuccardi Merli parlerà di “Il bambino difficile. Iperattività e maltrattamento”. Su gentile concessione degli organizzatori, pubblichiamo l’intervento di Becce. Lo psicoanalista riferisce e riflette sulle esperienze delle madri in difficoltà, in situazioni di disagio sociale, accolte “La Madre” alla Casa di accoglienza a Trieste. Aldo Becce racconta delle donne arrivate dalla Nigeria, spesso madri con figli nati a causa delle violenze subite in Libia, e su come sia necessaria una “supervisione” per un percorso complesso, denso di implicazioni etiche.
Aldo Becce: i bambini invisibili, figli della tratta
Nel 2016 l’equipe della casa di accoglienza “La Madre” della Fondazione Diocesana Caritas Trieste onlus, ha chiesto a Jonas Trieste Onlus, la supervisione dei suoi operatori che lavorano nell’accoglienza di donne in difficoltà: mamme con bambini, donne in gravidanza, donne sole che stanno vivendo un momento di difficoltà economica, relazionale, psicologica. L’obiettivo della casa è promuovere lo sviluppo umano integrale delle persone accolte, sia nel loro percorso individuale di vita che nel rapporto genitore/figlio, per poter sviluppare e consolidare percorsi di autonomia ed affrancamento da situazioni di disagio ed esclusione sociale.
La tipologia di persone accolte è cambiata negli anni riflettendo le esigenze del contesto sociale contemporaneo. Negli ultimi 5 anni, per far fronte all’emergenza dei flussi migratori di coloro che fuggono dai loro paesi a causa di guerre, situazioni politiche instabili, fame, povertà, sono state accolte prevalentemente richiedenti asilo da diversi Paesi. Tra le ospiti arrivate in casa tre ragazze nigeriane, entrate nel sistema dei richiedenti asilo ma in effetti potenziali vittime di tratta.
La maggior parte delle ragazze partono dalla Nigeria, attraversano l’Africa seguendo le antiche rotte degli schiavi: sono donne vendute, rapite, ingannate, violate, sfruttate. Spesso arrivano nel nostro paese senza sapere esattamente dove siano. Ragazze, frequentemente destinate alla strada e allo sfruttamento. Nel 2015 è stata accolta la prima mamma nigeriana con un bimbo di 3 giorni. La donna non era in grado di tenere bene il bimbo in braccio, d’altra parte non aveva avuto una famiglia di riferimento, probabilmente le era mancata l’esperienza di essere figlia. Dopo un anno e mezzo di accoglienza, la giovane mamma aveva trovato un lavoro, acquisito gli elementi essenziali per la cura del bambino, avviato un percorso complesso ma possibile verso una vita autonoma. Dopo un periodo di tensioni la giovane mamma ha deciso di andar via in modo piuttosto brusco dalla casa, portando con sé il figlioletto. Non abbiamo avuto notizie di Oby per anni, era sparito nel nulla.
Figli della Libia
Le donne nigeriane, infatti, arrivano spesso in gravidanza e i loro bambini, che nascono qui in Italia, nella maggior parte dei casi sono “figli della Libia”, delle violenze e delle torture subite. I bambini nascono, crescono e dopo circa un anno talvolta accade che spariscano con le loro madri, svaniscono nel nulla, si perdono le loro tracce. Dove finiscono? Talvolta vittime a loro volta di traffici loschi oppure vivono in situazione promiscue.
La fuga del nucleo nigeriano ha messo in crisi l’intera comunità. A questo punto l’equipe ha deciso di rivolgersi all’associazione Jonas per chiedere una supervisione. Jonas Onlus è un’associazione di psicologi, fondata da Massimo Recalcati, ed è un’istituzione di psicoanalisi applicata al sociale e alla clinica dei Nuovi Sintomi del disagio contemporaneo (anoressie-bulimie, obesità, depressioni, attacchi di panico, dipendenze patologiche, disagio familiare, infantile e adolescenziale).
In Casa La Madre, si sono ripetute più volte le fasi di questo meccanismo perverso: prima accoglienza, permanenza in casa per un tempo variabile, sparizione e successiva riapparizione come prostitute. La sensazione degli operatori di entrare involontariamente a far parte di un canovaccio che si ripete, ha motivato la richiesta di supervisione.
Una domanda etica
La domanda etica pressante degli operatori puntava a capire il senso del loro lavoro: “Cosa stiamo facendo?” “Curando la prima accoglienza delle ragazze, stiamo involontariamente contribuendo al meccanismo della tratta?” “Come ritrovare il senso del lavoro nella nuova prima accoglienza, dopo aver attraversato l’esperienza traumatica delle ragazze accolte sparite e dopo riapparse come prostitute?”
Tenendo sempre come sfondo queste domande etiche, le supervisioni si sono svolte affrontando gli argomenti quotidiani della vita in comunità: i conflitti, i dubbi, le differenze culturali, le scelte degli operatori nell’incontro con le persone assistite.
Attraverso la supervisione è stata affrontata l’analisi del trauma istituzionale prodotto ripetutamente dalla sparizione improvvisa delle ragazze nigeriane accolte, abbiamo registrato una verità tanto evidente quanto negata: a sparire non erano solo le ragazze, ma anche i loro figli. Tuttavia, in ogni discorso sulla tratta appaiono unicamente le ragazze e la loro tragedia, senza la presenza dei figli.
Dopo tre anni dall’inizio della nostra esperienza di supervisione, possiamo affermare con certezza che da un cocente fallimento, dal dolore di non conoscere il destino di Oby, è stata generata una nuova modalità di lavoro, che ha portato nuove domande ma anche nuove idee e progetti per aiutare le persone che arrivano nella nostra casa.
Effetto della supervisione
Il momento della supervisione è il tempo dedicato agli operatori e non è solo un luogo in cui poter condividere le frustrazioni, le emozioni, le difficoltà ma soprattutto il disagio dell’operatore si supera affrontando le difficoltà delle ospiti: studiando insieme, indagando i problemi anche attraverso la prospettiva degli psicologi, sperimentando soluzioni e creando insieme nuovi progetti. In sostanza il malessere dell’operatore si affronta con la concretezza dell’attivazione, della creatività.
Negli anni sono stati sviluppati tanti progetti con destinatari diversi: le ospiti, gli operatori, la comunità, i professionisti, ecc. Tra i progetti generati in supervisione gli inserimenti lavorativi in Eataly di Trieste, perché lavorare non è solo una necessità economica ma è dignità della persona, possibilità di costruire relazioni, integrarsi, avere un ruolo nella società, contribuire al miglioramento della società, mettere in atto la propria creatività, rafforzare la propria autostima. Può essere strumento di riscatto e di libertà. E’ stato avviato di un progetto “Food for Life” che prevede la realizzazione di un catering e la costituzione di una piccola rete di famiglie che si occupano dei figli delle accolte affiancando e sostenendo le mamme soprattutto nel momento dell’uscita dalla casa di accoglienza.
Sono stati realizzati incontri con volontari e con la comunità per affrontare temi quali la tratta, i bambini “invisibili”, l’integrazione, le differenze culturali, ecc e con le istituzioni come il Tribunale dei Minori, i Servizi Sociali del Comune di Trieste, la Questura. Da questi incontri sono nate fruttuose collaborazioni in particolar modo con il Tribunale dei Minorenni.
Sono stati avviati vari laboratori allo scopo di guidare le ospiti in un percorso di autoconsapevolezza indagando le proprie risorse personali, gli stati emotivi, le relazioni interpersonali, i propri desideri, i sogni, attraverso la sperimentazione di diversi codici artistici (gioco teatrale, movimento creativo, attività artistiche e manuali).
Quello che il mare ferisce, il mare guarisce
Infine, tra le attività ideate in supervisione e con un valore simbolico e metaforico per la comunità, le ospiti e rispetto al senso del lavoro che con loro facciamo, ci piace ricordare l’iniziativa “Ciò che il mare ferisce, il mare guarisce” organizzata da Eataly, Fondazione Diocesana Caritas di Trieste onlus e Jonas Trieste Onlus con il patrocinio dell’UNHCR nell’ambito della Barcolana 2018, una vera festa del mare molto partecipata a Trieste. Le nostre ragazze sono arrivate dal mare, il mare “nero” come lo definiscono tutte: il mare profondo e pericoloso quando l’hanno attraversato, spesso durante la notte, nei loro occhi il terrore, la morte delle loro compagne di viaggio.
É il mare del trauma che le ha ferite, le tracce della loro paura nei loro sguardi profondi. Le nostre ragazze sono salite di nuovo su una barca in mare, anche seguendo un progetto terapeutico di Jonas Onlus. Nei loro occhi l’orgoglio, la dignità, questa volta hanno potuto sperimentare la potenza lenitrice/guaritrice del mare. Non più un viaggio in cui erano merce, ora sono persone, non più trasportati da criminali ora viaggiano insieme ad una rete di persone amiche. Non una rete che ti imbriglia ma una rete che ti salva, di cui fanno parte attivamente. Per una giornata l’equipaggio di Betelguese, la barca che ha vinto la prima Barcolana, ha avuto tra i suoi membri due ragazze ospiti della Casa di Accoglienza “La Madre” che attualmente lavorano in Eataly e sono riuscite ad avere una seconda opportunità per vivere pienamente la loro vita. Nel mare si è giocata la loro vita, ora hanno vissuto la loro seconda entrata e hanno potuto goderne la bellezza.
Il sito delle case di accoglienza della Caritas Trieste