Rock Reynolds
“Dobbiamo porci delle domande, affrontare discussioni anche accese. Dobbiamo iniziare a farlo subito, se non vogliamo essere travolti dagli eventi. Perché il mondo sta cambiando e, tra una cinquantina d’anni, sarà cambiato ulteriormente. E, se diamo ascolto a ciò che gli esperti dicono, il continente africano, che oggi conta poco più di un miliardo di abitanti, tra il 2050 e il 2060 vedrà raddoppiare tale numero. Dobbiamo chiederci, dunque, se vogliamo accogliere chi si metterà in viaggio per venire da noi, quanti ne vogliamo accogliere, se non li vogliamo accogliere affatto. Ma, se decidiamo di accoglierli, dobbiamo essere pronti. Dobbiamo, per questo, chiederci anche se vogliamo investire in infrastrutture come case, scuole e ospedali. Perché quelle infrastrutture saranno indispensabili. Prima ancora, però, dobbiamo domandarci se ci sono i soldi per farlo. Gli africani verranno perché nulla lascia intendere che, fra una cinquantina d’anni, in Africa ci possa essere lavoro per tutti, case per tutti, ospedali per tutti. Si metteranno in viaggio verso nord e arriveranno”.
Non si limita a fare il compitino, Tim Marshall. Ogni volta che gli faccio una domanda, strizza gli occhi in uno sforzo di concentrazione. Il suo lavoro di giornalista lo prende enormemente sul serio e non vuole che nessuna delle sue parole sia banale o che una sola delle sue affermazioni possa essere travisata o, peggio ancora, strumentalizzata. In una stanzetta di un albergo nel centro di Mantova, con la finestra aperta per far entrare un po’ d’aria e, con essa, il cicaleccio proveniente dalla strada, il giornalista inglese non si tira indietro. Il Festivaletteratura lo ha invitato e, malgrado un serio problema fisico che in futuro potrebbe tenerlo lontano dai voli aerei, ha ugualmente mantenuto fede a un impegno preso da tempo. Strano pensare che un volo aereo possa spaventare un uomo che è stato inviato speciale in alcuni dei principali scenari di guerra degli ultimi anni e che deve certamente essersi trovato più volte tra le grinfie del pericolo.
“Trump ha già eretto il suo Muro”
Il suo primo libro italiano, Le 10 mappe che spiegano il mondo, è stato un best seller e il suo seguito (che in realtà è parte di una trilogia comprendente un secondo volume in inglese che lo ha preceduto) ha tutte le carte in regola per fare ancor meglio. I muri che dividono il mondo (Garzanti, traduzione di Roberto Merlini, pp. 270, euro 19) è una lucida analisi di come l’umanità, in fondo, non ha cambiato abitudini nel corso della storia. “I muri esistono sostanzialmente da quando esiste l’uomo e conservano la stessa funzione di un tempo: proteggere persone e cose all’interno e tenere altre persone all’esterno. Era questa la funzione della Grande Muraglia Cinese ed è questa la funzione del muro che Donald Trump ha promesso di erigere tra Stati Uniti e Messico. Difficile che quel muro possa mai essere costruito, quasi impossibile. Trump ha sempre saputo di non averne le risorse finanziarie e di non poter nemmeno contare su un numero di voti sufficienti nel Congresso. Ma il suo scopo l’ha raggiunto. Anche grazie a questo slogan, è riuscito a farsi eleggere e ora quel muro non serve neppure più che lui provi a costruirlo: l’ha già eretto nella testa di una bella fetta di americani”.
Dalla Muraglia a Salvini passando per Kubrick
Il libro si divide in otto capitoli, ciascuno dei quali prende in esame un diverso muro: la Cina, Stati Uniti e Messico, Israele e Palestina, Medio Oriente, il subcontinente indiano, l’Africa, l’Europa e il Regno Unito.
“La Cina ha costruito un muro lunghissimo e, in tempi recenti, lo ha fatto restaurare per ciò che simboleggia, più che per ciò che davvero è. La Grande Muraglia è la manifestazione della forza dell’etnia Han nella storia. Gli Han rappresentano il 90% circa della popolazione cinese e la Cina oggi la sua vera muraglia l’ha eretta su Internet, dove, appunto il “great China firewall” impedisce agli utenti di navigare liberamente”.
A Tim Marshall, la cui prosa si mantiene in sapiente equilibrio tra la scientificità necessaria per essere credibile e un tono giornalistico più suadente, un’indicazione del fatto che non ha paura a prendere posizione dopo aver fornito una descrizione analitica del quadro complessivo, piace citare la scena di apertura di 2001: Odissea nello spazio, capolavoro di Stanely Kubrick. Lo fa nell’introduzione al suo libro e lo fa di fronte a me. “È l’alba della storia dell’uomo e un gruppo di ominidi si abbevera a una fonte. Giunge un altro gruppo di ominidi che vorrebbe fare altrettanto e scoppia un litigio violento. È quello il momento in cui l’uomo erige il suo primo muro. È una questione identitaria, che spesso finisce per rappresentare la dicotomia tra noi e gli altri. Nel tempo, non è solo un discorso di tipo razziale, bensì una vera e propria lotta per il controllo delle risorse, ma nel tempo anche quella preoccupante connotazione assume una valenza rilevante”.
Tim Marshall sa benissimo quale sia il clima politico che si respira in questi giorni nel nostro paese. “La dichiarazione del vostro ministro degli Interni, Matteo Salvini, di chiudere i porti alle navi dei migranti è mera propaganda. Salvini sa benissimo di non poterlo fare in alcun modo e sa pure che i migranti verranno comunque e sbarcheranno altrove. Ma le sue parole hanno un forte valore simbolico e, in qualche misura, hanno lo stesso effetto della promessa di costruire un muro tra America e Messico fatta da Trump ai suoi elettori: nella testa dei seguaci di Salvini o di chi pensa che troppa gente stia approdando in Italia dai paesi africani, quelle parole hanno un senso perché, da buon leader populista, lui li sta rassicurando, sta dicendo loro, ‘Vedete? Noi sì che stiamo prendendo provvedimenti!’.”
“I muri ci sono sempre stati”
Ma com’è possibile che, a quasi trent’anni dalla caduta del muro di Berlino, il monumento per eccellenza all’insensatezza dell’umanità del dopoguerra, ci siano ancora tanti muri e cresca la voglia di costruirne altri, un po’ ovunque? Tim Marshall ha le idee chiarissime. “Ripeto, i muri ci sono sempre stati: la Grande Muraglia Cinese, il vallo di Adriano, il muro di Costantinopoli, ecc. Il muro di Berlino cadde alla fine del sistema binario che dominava il mondo e che, oltrecortina, era stato tenuto in piedi attraverso la repressione. Il muro cadde e, per un po’, cadde pure la repressione. Le prime avvisaglie del fatto che quel sistema non era stato rimpiazzato da un altro sistema si ebbero con la disgregazione della ex-Jugoslavia. La gente, lentamente, iniziò a rendersi conto che non tutto sarebbe migliorato rispetto a quando c’era il muro e iniziò a scontrarsi con una pesante crisi identitaria, che, a lungo andare, ha portato allo stato attuale delle cose. Il mondo, o meglio, l’Europa ha vissuto il periodo più pacifico e illuminato della sua storia proprio negli ultimi cinquant’anni. I disastri della guerra hanno spinto un gruppo di fini pensatori a immaginarsi un’Europa unita, forte, in grado di tenere lontani gli orrori della guerra per sempre. Erano uomini illuminati ma pure un po’ troppo idealisti e, memori di quanto accaduto durante la guerra, accelerarono troppo un processo che andava fatto per gradi. E, man mano che l’Europa si sviluppava, la memoria storica degli orrori della Seconda Guerra si riduceva. Se oggi facessi una battuta sull’assedio di Baghdad del 1258 da parte dell’esercito mongolo e la conseguente strage di civili (tra i 200.000 e i 2.000.000 di morti a seconda delle cronache), nessuno se la prenderebbe, anche perché non se ne ricorda quasi nessuno. Invece, non potrei fare battute sull’Olocausto”.
“L’Europa deve aiutare Italia e Grecia sull’immigrazione”
Marshall sa bene quanto sia spinosa la questione dell’immigrazione, in Italia e nel resto dell’Europa. “Al primo vero sussulto del terreno comune, le fondamenta stesse della Comunità Europea hanno tremato pesantemente e l’unità europea, considerata una specie di mito inossidabile, ora è in forte discussione. L’Italia, al di là dei vari discorsi populisti, non può essere lasciata sola insieme alla Grecia ad affrontare una migrazione epocale destinata ad assumere proporzioni immani. Nel lungo periodo, l’Europa dovrà accettare di dare una mano a questi paesi. Ma, si sa, in politica l’unica prospettiva in grado di portare voti è quella di breve periodo e, dunque, per ora nemmeno i paesi più aperti si sono mostrati solidali. La Francia di Macron fa proclami progressisti, ma non fa nulla per accogliere qualche profugo in più. Che ci piaccia o meno, penso che avremo un’Europa a diverse velocità, con il gruppo di Visegrad staccato dal resto e con situazioni regionali molto diverse. Basti pensare a ciò che sta succedendo in Svezia. Non si può bollare come populista e razzista la paura di chi si mostra perplesso verso la capacità di uno Stato di creare le infrastrutture necessarie a fronteggiare fenomeni di migrazioni di massa. Inoltre, non va dimenticato l’impatto della crisi economica del 2008 sulle certezze della gente. Credo che un’Europa unita sia ancora pensabile, ma ci vorrà tempo”.
Tim Marshall pesa le parole. È uno scienziato della geopolitica e non vuole, naturalmente, essere male interpretato. “Vengo da un pensiero di sinistra e mi considero un progressista, ma non posso fare a meno di chiedermi: quali immigrati mi piacerebbe veder arrivare nel mio paese? La risposta è chiarissima: persone aperte e progressiste. In Inghilterra, i caraibici di colore dopo un paio di generazioni si integrano perfettamente. Maggiori difficoltà hanno i musulmani”.
Dal Muro tra Israele e Palestina a Belfast
Tim Marshall non è affatto su posizioni anti-Islam. Ha amici palestinesi e amici israeliani e prova una profonda frustrazione ogni volta che va in Medio Oriente. “Qualcuno pensa che, nell’era della guerra spaziale, un muro sia una cosa ridicola, insensata dal punto di vista pratico. Non è così. Qualche tempo fa, si pensava pure che le truppe di fanteria sarebbero sparite del tutto, mentre la guerra in Iraq ha dimostrato la loro assoluta necessità per esercitare un autentico controllo sul territorio. Il muro che separa Israele e Palestina si è dimostrato efficientissimo: da quando è stato costruito, il numero di attacchi suicidi ai danni di cittadini israeliani si è ridotto sensibilmente. Dunque, per gli israeliani funziona e come. Però, naturalmente, capisco benissimo l’insoddisfazione dei palestinesi che si trovano dall’altra parte”.
C’è un muro ormai vecchio che divide i quartieri cattolici di Belfast da quelli protestanti. È un muro infame, nel cuore della moderna Gran Bretagna e della (un tempo) tradizionalissima Irlanda. Insomma, l’ennesimo muro nella civilissima Europa. “La Brexit ha sconvolto il quadro della zona: l’Irlanda del Nord non è più parte dell’Europa, mentre la Repubblica di Irlanda resta in Europa. Dopo gli accordi del Venerdì Santo, che hanno posto fine al conflitto angloirlandese, di confini tra le due parti dell’Irlanda non ce ne sono più stati. Costruire un muro, con case matte e torrette di osservazione per controllarlo, sarebbe inconcepibile. Verrebbe attaccato. E un attacco farebbe affluire altre truppe e si scatenerebbe un nuovo conflitto. Dunque, la decisione al riguardo è forse la più delicata che la scelta di uscire dalla Comunità Europea ci abbia messo davanti. A Belfast c’è un muro che né i cattolici né i protestanti vogliono abbattere, perché convinti che ne vada della loro sicurezza da eventuali aggressioni settarie. Ecco perché quella decisione si fa così importante: perché riguarda la vita e la morte delle persone. Penso che la Gran Bretagna si stia avviando a una soluzione di compromesso con Bruxelles. Adoro la parola compromesso: indica comunque un passo avanti. Inoltre, per quanto capisca il risentimento dell’Europa verso la Gran Bretagna, prendeteci a schiaffi, ma non calcate la mano: non fareste altro che acuire la distanza tra noi e voi”.