Enzo Verrengia
«Applausi di gente intorno a me» cantavano i mitici Camaleonti nel fatidico 1968, su testo di Giancarlo Bigazzi. Nel pieno di un movimento che esaltava l’azione collettiva, nella hit parade trionfava l’inno disperato alla solitudine individuale di chi paga il prezzo del successo con l’approvazione del pubblico e il rifiuto da parte della persona amata. Ora quel titolo, quel ritmo sincopato di blues scandito da un unico accordo di chitarra elettrica e quell’eco solitario di completo isolamento dovrebbero far riflettere sull’utilizzo sempre più ossessivo, strumentale e incongruo degli applausi in studio.
È lontana l’epoca di Studio Uno, di Senza rete e dei varietà trasmessi dal vivo sulla rete ammiraglia della Rai e clonati dalla Mediaset delle origini, Canale Cinque. In entrambi i casi, i battimano provenivano da gente vera, assisa nel teatro delle Vittorie o negli studi di Video City a Cologno Monzese. Certo, a pilotarli c’erano sempre gli assistenti di sala, imbeccati dalla cabina di regia. Ma di fondo, l’approvazione scrosciante dei numeri eseguiti da cantanti, musicisti, ballerini, presentatori e fantasisti serbava una sua genuinità che teleproiettava attraverso l’etere l’interazione artista-uditorio risalente al teatro greco-romano.
Poi gli applausi hanno acquisito un protagonismo del tutto fine a se stesso. La punteggiatura del vaniloquio o dell’autocompiacimento nei talk show dell’Italia televisiva post-moderna segnano ulteriormente la chiusura dell’universo del discorso denunciata a suo tempo da Marcuse. Per di più a ridosso dello sprofondamento politico nel baratro del basso impero.
Posta su Facebook il giornalista Oreste Pivetta: «Alla ricerca disperata di qualcosa di televisivo per tirar tardi, sono approdato a La7 e a Giovanni Floris, conduttore di DiMartedì. Talk show politico, quindi l’attualità politica (che è un bel problema, per non dire un bel disastro) di forte interesse. Assisto alla consueta sfilata di titolati colleghi giornalisti, sempre gli stessi, il serioso Polito onnipresente, il simpatico Damilano (che non trascura neppure gli appuntamenti comici), l’arrabbiato Giannini, il sorprendente Giordano, approdato ormai alle rive del comunismo estremo. Dimentico qualcuno. Ma pazienza… Erano presenti anche ospiti che avrebbero potuto dire qualcosa di interessante, ospiti fissi come l’elegantissima Fornero e come Cottarelli, la cui sorte è di venire zittito appena apre bocca. Scelte del conduttore, Floris. Non mi stupisco di nulla. Mi permetto solo di dirmi assai infastidito dall’uragano di applausi che accoglie qualsiasi asserzione, di qualsiasi colore, di qualsiasi segno, di qualsiasi modestia. Molesti, per il nostro udito, insistenti e ripetuti, applausi a comando (come ben sa chiunque abbia frequentato uno studio televisivo), al lampeggiare della luce rossa, che appaiono evidentemente espressione di naturale e sincero entusiasmo a Floris, peraltro persona colta e garbata, che ieri sera un regalo comunque ce lo ha fatto: l’intervista a Cecilia Mangini, novantunenne fotografa e documentarista, di rara intelligenza e lucidità, di rara prontezza e sinteticità nelle risposte ad ogni domanda. Ci vuole un applauso (rivedete l’intervista, se potete)».
Lo affianca il giornalista Mario Carmelo Guerrisi: «Non avrei mai voluto ammetterlo, pensavo di essere l’unico, che assistendo alla trasmissione di Giovanni Floris, su La7, s’infastidiva ad ascoltare i continui applausi, rivolti ai diversi ospiti (nel senso che gli applausi, vanno indistintamente a tutti i diversi personaggi, indifferentemente da quello che dicono). E invece. non é come pensavo, perché molti altri ascoltatori la pensano come me. Di questo, ci terrei a conoscere il senso di tale anomalo comportamento! Credo, che i conduttori, così facendo, pensano di poter riscuotere maggior successo dalle loro performances. Non é affatto così, invece, perché fanno maggiormente infastidire gli ascoltatori!»
L’invadenza degli applausi trasforma in puntate di una sitcom vacua e irrilevante i dibattiti nei quali si gioca il presente e il futuro di un Paese dai tasselli di un mosaico disfatto. Ogni affermazione di politici, analisti e osservatori viene ridotta a una battuta vincente nel verdetto manuale delle platee assembrate con criteri non discernibili. Finché, pur se inquadrate dalle telecamere, le persone che ascoltano i conduttori e gli ospiti perdono di consistenza, sia pure digitale (un tempo catodica) e sfumano in effetti preregistrati.
Fu una trovata dei pionieri della televisione americana, insieme alle risate finte. Servire agli spettatori uno spettacolo precotto, con ogni ingrediente. Seduto sul divano della solita, orrenda abitazione a schiera dei sobborghi, il teledipendente made in Usa poteva rimpinzarsi di junk food e junk broadcast. Non doveva neanche sforzarsi di ridere ai momenti giusti, un nastro preregistrato lo faceva per lui. Lo stesso per gli applausi, soprattutto gli applausi. Gli applausi che denotano il culmine del gradimento, nella lotta per la conquista dello share.
Quanto diversi non solo da quelli artigianali dei già citati varietà vintage, ma anche da quelli dei dischi tratti da concerti live. In quest’ultimo caso, il clamore delle masse oceaniche entrano di diritto nella dinamica musicale, tanto più se rock o jazz. Mentre nelle jam sessions fra avversari di partito e influencers di differenti scale audio – gli urlanti, i sommessi, i predicanti, ecc.– gli applausi a comando fanno parte, appunto della confezione, e non dànno più la misura effettiva dell’approvazione e, principalmente, della verità veicolata dai messaggi degli applauditi.
Allora torna quell’accorata considerazione dei Camaleonti: «Applausi di gente intorno a me», con la coda didascalica: «L’uomo non è / non è un robot senz’anima…»
Argomenti: facebook