Giorgia Meloni, più di ogni altro italiano, festeggerà la data del 26 gennaio. No, non è “il giorno della memoria” che sarà celebrato il giorno successivo e chissà con quali contraddizioni, ma l’anniversario, il trentennale del discorso televisivo di Berlusconi che annunciava la sua “discesa in campo”.
“L’Italia è il paese che amo – iniziava Berlusconi, che poi continuava – …l’autoaffondamento dei vecchi governanti, schiacciati dal debito pubblico e dal sistema illegale di finanziamento dei partiti, lascia il paese impreparato e incerto nel momento difficile del rinnovamento e del passaggio a una nuova Repubblica”.
Era appunto il 26 gennaio del 1994 e per tutti coloro che oggi hanno meno di trent’anni queste parole passate in tutti i telegiornali delle televisioni pubbliche e private che preparavano il passaggio alla Seconda Repubblica sono coperte dalla polvere del tempo. Uno strato di polvere simile a quello che copre le parole che sessant’anni prima aveva pronunciato, alla radio, il più importante presidente degli Stati Uniti, Franklin Delano Roosevelt, nella prima delle storiche “chiacchiere al caminetto”.
Se le chiacchiere di Roosevelt di novant’anni fa sono ancora oggi studiate e considerate uno dei migliori esempi di comunicazione politica per le masse, nella prima metà del Novecento, sicuramente lo sono anche e, dopo la morte lo stanno diventando ancora di più, quelle di Berlusconi per la seconda metà di quel secolo e l’inizio del nuovo.
La “discesa in campo” del Cavaliere è una di quelle cesure che fanno e faranno affannare parecchio gli storici. Da allora è cambiato tutto, e non solo in politica. Una transizione culturale in continuum, nel senso antropologico del termine, con valori, rappresentazioni, pratiche sociali, forme di consumo e, in definitiva, atteggiamenti morali e modi di organizzare le relazioni sociali e di dare un senso diverso alla vita.
La scelta della comunicazione e la cura dell’immagine da parte di Berlusconi è alla base del processo di cambiamento; una potenza comunicativa studiata soprattutto per la televisione, già nel suo bagaglio personale, ingigantita dallo strumento usato: il suo impero televisivo. Il contesto internazionale era favorevole, la Tatcher di qua dall’Atlantico e Reagan dall’altra parte, avevano precedentemente acceso il fuoco del neoliberismo e della cultura dell’individualità abbandonando le politiche di supporto al mercato da parte dello Stato e limitando gli investimenti nel welfare.
L’Italia era in ritardo in questo percorso inficiato dai tentativi coraggiosi di compromesso storico fra Pci e Dc nel bel mezzo degli anni di piombo. Quando questi ultimi si placarono, negli anni Ottanta, iniziava l’assaggio del riflusso individualista di sapore e colore americano con la “Milano da bere”, ben rappresentata dalla neotelevisione popolare e populista berlusconiana: Drive In, Maurizio Costanzo Show e le serie statunitensi infinite e commercialmente convenienti come Dallas o P.I. Magnum, seppero inserirsi appieno nel costume di casa nostra che stava mutando.
Questo periodo fu drasticamente interrotto da Tangentopoli. Le macerie politiche e sociali che seguirono crearono tutti i presupposti per la concretizzazione del sogno politico di Berlusconi. La fidejussione di garanzia a questa idea, iniziata molto prima dal disegno di Bettino Craxi a favorire le televisioni del Cavaliere, fu firmata definitivamente dal ministro delle Poste e Comunicazioni, Oscar Mammì, attraverso la sua legge che ne decretava la definitiva stabilità. Era il 1990, quattro anni prima della scelta di Berlusconi di entrare in politica attiva, e la Rai, la televisione pubblica, doveva arrovellarsi alla spartizione pubblicitaria per competere sulla nuova visione del mondo della televisione commerciale generalista.
L’arrivo in politica di Silvio Berlusconi fu anche l’inizio dello sdoganamento “democratico” dei post-fascisti del Msi che solo l’anno successivo concretizzarono il “simbolwashing” a Fiuggi con la nascita di Alleanza Nazionale. Con Berlusconi tornò alla ribalta anche il trasformismo politico. Quello stesso trasformismo che aveva fatto la storia dei cambiamenti strategici dei partiti della Destra Storica e Sinistra Storica a fine Ottocento e che oggi si sarebbe vestito solo delle scandalose opportunità individuali che avevano però il potere di cambiare improvvisamente la storia di alcuni governi e il volto della nostra società.
Giorgia Meloni potrà dunque festeggiare questa ricorrenza ricordandosi come in quei giorni, da diciassettenne della Garbatella al Liceo Linguistico romano, comandava con orgoglio e determinazione le battaglie politiche dei giovani missini. Si ricorderà ancora meglio come appena dodici anni dopo, a solo 29 anni eletta deputata in Alleanza Nazionale, sarebbe stata la più giovane Vicepresidente della Camera dei Deputati con il secondo dei governi Berlusconi. Da lì un’ascesa paziente ma convinta che ha poche somiglianze nella politica italiana. Senza ricattabilità, come dice lei, ma un grazie a Berlusconi è dovuto.
Dal confronto televisivo del 23 marzoo 1994 fra Silvio Berlusconi in completo grigio e Achille Occhetto in completo marrone, gestito da Enrico Mentana, a quello che avverrà fra Giorgia Meloni e Elly Schlein, il passo è lungo trent’anni. Se tutto è cambiato allora è lecito aspettarsi un confronto completamente diverso dove fermi potrebbero restare solo il mese di marzo e, perché no, il conduttore Mentana. Di certo l’armocromista di Schlein non permetterà il marrone, quel giorno!
Argomenti: giorgia meloni silvio berlusconi