La televisione compie settant’anni. Cambia ma non muore

Ha scandito l’evoluzione della società passando dal Maestro Manzi e Mike Bongiorno e attraverso il boom della televisione commerciale di “Drive in” per resistere all’on demand grazie al connubio con i social che gli fanno da amplificatore

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Marcello Cecconi Modifica articolo

3 Gennaio 2024 - 14.29


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La neonata televisione fu adottata dagli italiani il 3 gennaio 1954, una data che cambierà lentamente ma per sempre la storia della famiglia Italia. Il trascorrere delle giornate, delle settimane e dei mesi sarà sempre più scandito dai tiggì e dai programmi di varietà partoriti da quell’ingombrante suppellettile, originariamente, di legno e vetro.

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All’inizio trovò posto nel tinello buono di poche famiglie medio-borghesi. Infatti i piccoli schermi che si accesero quel giorno furono poco più di ottantamila, e gli abbonati ancora meno, poiché i costi del servizio erano insostenibili dalla maggioranza degli italiani: il prezzo medio di un televisore era di circa 450mila lire e il salario annuale di un operaio medio di 600mila.

Dopo l’ufficiale inaugurazione, il primo programma ad andare in onda sull’unico Programma Nazionale fu Arrivi e partenze con debutto televisivo di Mike Bongiorno, scelto personalmente dal direttore generale della Rai Vittorio Veltroni. Bongiorno, affiancato al già collaudato giornalista Rai Armando Pizzo, fu diretto dal giovane Antonello Falqui, pilastro dell’evoluzione dei varietà televisivi da Canzonissima a Studio Uno. La coppia si esibì in una serie di interviste a personaggi italiani e stranieri colti al volo nei maggiori porti e aeroporti della penisola.

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La Rai, Radio audizioni Italia, che aveva ingerito strutture e persone della fascistizzata Eiar iniziava a vestirsi dell’imperante subcultura cattolica che rifletteva la media borghesia, che però, grazie allo straordinario successo di Lascia o raddoppia andò incontro anche a coloro che non si potevano permettere il lusso della televisione in casa propria.

Sull’onda del successo di Lascia o raddoppia, i condomini abbienti invitavano i vicini a casa loro, mentre la televisione invadeva i bar, i cinema e i circoli ricreativi diventando uno strumento di punta della cultura popolare, fenomeno che si iniziava a studiare e analizzare nelle università. Quella fu la televisione democristiana marcata da un’informazione “misurata e controllata” ma che si distendeva nelle grandi inchieste di Mario Soldati, Sergio Zavoli e Ugo Zatterin, insieme ai varietà del sabato sera ed ai quiz del giovedì. Le lezioni del maestro Manzi rafforzavano il ruolo popolare e pedagogico della televisione.

Poi arrivò il tempo nuovo con gli apparecchi televisivi meno cari e a colori in tutte le case e con i programmi che influenzavano il costume e il linguaggio. La visione del mondo cambiava anche sotto la spinta della neonata televisione commerciale berlusconiana che insidiava il monopolio della Rai, obbligandola a scendere a patti. L’Auditel fu la formula magica che segnò quel patto. La Rai presentò 90° minuto, Bontà loro, Portobello, L’altra domenica, Quelli della notte, Domenica in, Mixer, Samarcanda, La Piovra mentre dall’altra parte ci fu l’innovazione dell’intrattenimento puro marcato da programmi come Drive in o Mai dire gol. La televisione diventava così generalista scandendo la vita dell’intera società.

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Il nuovo millennio affollava l’offerta televisiva con il satellite e la pay tv e si ha l’impressione che i giovani abbandonino. Per correre ai ripari arrivava l’epopea del Grande Fratello da un lato e la serializzazione dei clamorosi delitti dall’altra, mentre crescevano le innumerevoli nicchie dell’on demand. Si cominciava a temere che le grandi piattaforme arrivassero a decretare la fine della televisione generalista.

Ma come è accaduto in passato, quando si cantava “The video killed the radio star”, ciò non è avvenuto né allora né adesso. Lo streaming da “vedere quando vuoi” non ha ucciso i palinsesti quotidiani che si sono modificati, adeguati, soprattutto in funzione del sempre più diffuso uso dei social attraverso gli smartphone.

E adesso che, la nuova ventata politica con grande orgoglio patriottico rivendica un posto nella visione culturale del paese, c’è la fluidificazione del duopolio Rai-Mediaset. Gli spazi lasciati liberi dal “duopolio perfetto” vengono occupati da La7 o da altre piattaforme che addirittura scendono sul digitale per approfittare dell’occasione, vedi Discovery e Sky. La televisione digitale cambia ma non muore e, in qualche modo, diventa un approdo per distoglierci dagli algoritmi facendoci soffermare davanti al suo schermo. Una televisione partecipativa dunque? Si, se la partecipazione significa tenere il telecomando che sceglie un programma in una mano e uno smartphone nell’altra per discuterne in diretta sui social.

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E la Rai come sta? La nostra arzilla settantenne, nonostante alcune rughe del tempo e vestiti consunti dalle continue forzature (lottizzazione) della politica, oggi in aumento, non ha nessuna intenzione di abdicare. Si, la signora Rai, ha ancora il suo fascino e mostra i suoi giorni migliori con disincanto e fierezza in Techetechetè, la rubrica, riempi spazi vuoti, che diventa speciale specchio di confronto o finestra del sapere a seconda della generazione che incrocia.

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