Pertini e Napolitano, uguali ma diversi

I primi due Presidenti di cultura marxista che il mese di settembre in qualche modo accomuna. Pertini è ormai un’icona popolare mentre Napolitano fa discutere destra e sinistra.

Pertini e Napolitano, uguali ma diversi
Pertini e un giovane Napolitano
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Marcello Cecconi Modifica articolo

27 Settembre 2023 - 13.16


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di Marcello Cecconi

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Collegare la storia politica e civile di due personalità come Sandro Pertini e Giorgio Napolitano ci fa anche riflettere sul nuovo, spedito ma confuso, percorso di cambiamento di clima culturale che attraversa il nostro Paese. Questi ultimi giorni di settembre ne hanno incrociato il ricordo. La data della morte di Giorgio Napolitano, il 22, e l’anniversario della nascita di Sandro Pertini, il 25, rimandano a due Presidenti della Repubblica che hanno lasciato il segno nella storia.

Due personalità che si possono accumunare pur nella loro diversità di stile e pensiero. Pertini e Napolitano sono divisi da almeno una generazione. Il primo era un coraggioso e attivo antifascista durante il ventennio e poi, quasi cinquantenne, artefice di parte socialista, quella minoritaria tra comunisti e azionisti, della Resistenza e della Liberazione. Il secondo, nato dopo la Marcia su Roma, si avvicinava da universitario non ancora ventenne ai comunisti in lotta per la liberazione poco prima della definitiva sconfitta del nazi-fascismo e, per questo, dal 1945 aderiva al Pci.

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Una traiettoria differente per un comune destino. Entrambi ultraottantenni al massimo ruolo istituzionale, entrambi unici Presidenti della Repubblica di cultura marxista. Sandro Pertini, il socialista fu il primo e l’ultimo a giungere alla massima carica nella Prima Repubblica, mentre il comunista, Giorgio Napolitano, ci giunse nella Seconda, ormai da ex comunista poiché la falce e martello del Pci erano stati sostituiti dalla quercia e dal garofano dei Ds che abbracciavano una filosofia riformista socialdemocratica. E a lui, per primo, fu chiesto e ottenuto di rimanere per un secondo mandato.

Pertini fu scelto, dalle due Camere, nel 1978 per un settennato che seguiva quello di Giovanni Leone costretto alle dimissioni anticipate dallo scandalo Lockheed. Fu una ventata di freschezza nel grigiore della Prima Repubblica che aveva assistito, da poco, all’omicidio di Aldo Moro e salutato quel centro sinistra mai troppo amato da uno come lui che aveva sempre sognato l’unità a sinistra.  “Uno di noi”, quando maltrattava il governo di  non fare abbastanza per i terremotati d’Irpinia o quando alzava le braccia al cielo per la nazionale italiana che conquistava la Coppa del Mondo allo stadio Bernabéu. Un caratterino da prima pagina sempre.

Napolitano, il napoletano comunista moderato seguace di Amendola, aveva uno stile diverso da Pertini. Meno chiaccherone e popolano, portamento quasi altezzoso, misurato ma deciso e, dal suo punto di vista, sempre coerente. Napolitano conosceva bene la Costituzione consapevole che non era da sbrindellare a piacimento e così fece anche nel 2011 con l’Italia sull’orlo del collasso economico e un capo del governo squalificato dal consesso europeo: chiamò Mario Monti per una direzione tecnica “lacrime e sangue”. Dopo si urlò al golpe di un autoritario “Re Giorgio”, anche se poi Berlusconi stesso andò a chiedergli di prolungare il suo settennato per rimandare la patata bollente della difficile ricerca di un nuovo Presidente.

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Ma oggi i tempi cambiano velocemente e la ricaduta dell’operato Pertini nell’agone politico non serve più a fini elettorali o a contrapposizioni culturali. Resta solo l’uomo, icona di simpatia e amante del palcoscenico della vita che si sintetizza tutto in uno slogan pubblicitario rubato a una famosa cucina e che non divide opinionisti mainstream di destra e sinistra: “il Presidente più amato dagli italiani”.  Gli anni Ottanta sono morti e sepolti e ormai servono solo a categorizzazioni musicali.

Intorno a Giorgio Napolitano, invece, e questi giorni lo stanno dimostrando, si gioca una battaglia a colpi di clamoroso detto in certa stampa e in qualche area politica di governo o di lasciato intendere in altra. Certo, fare il Presidente nella seconda Repubblica è stato molto più complicato. Silvio Berlusconi aveva stravolto i canoni della subcultura politica delle cellule e delle parrocchie trasformandoli in partito azienda, canoni così populisti e seducenti da costringere la sinistra a creare mucchi selvaggi con un’identità fragile e provvisoria per contrastare.

Ora sparare su “Re Giorgio”, il golpista affondatore dell’altro sovrano “Re Silvio”, può servire alla destra, ma soprattutto alla “diversamente sinistra”, per dimostrare infondata proprio l’affermazione della sinistra che si sente l’unica ad avere una cultura, profonda e radicata in anni di battaglie civili, sociali e culturali.

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La risposta a questa affermazione, un po’ saccente, di una sinistra che oggi stenta a costruire una strada comune, concretamente percorribile al di là degli slogan, eccome se c’è. Eccola. Dove sta scritto che per costruire un percorso culturale attraente ci vogliono anni e radici da assestare? Il percorso culturale che serve alla destra oggi è un meccanismo veloce e superficiale, ma di facile espansione e attrazione mediatica.

L’abbiamo visto in molte occasioni, ma specialmente il giorno della morte di Napolitano e soprattutto l’altro ieri ai funerali: il detto e non detto, lo schiaffo e la carezza. Messaggi per Sergio Mattarella? Tutto fa cultura, di “diversamente sinistra”.

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